Danilo Di Diodoro, Corriere della Sera 08/09/2013, 8 settembre 2013
LE STRATEGIE PER RENDERCI GENEROSI
Sono il cuore e le emozioni le «leve» che fanno mettere mano al portafogli per una donazione a una causa. O, per dirla in maniera più scientifica, sono quelle aree del cervello che regolano le emozioni, come il sistema limbico, che comprende, tra l’altro, amigdala e ippocampo.
Chi vuole sollecitare la partecipazione a iniziative benefiche deve comunicare con queste profonde strutture cerebrali, la parte più primitiva del cervello. Non è il pensiero razionale, rappresentato soprattutto nella parte frontale della corteccia cerebrale, ad avere accesso al portafogli. L’eventuale spiegazione razionale viene dopo, quando il cuore ha già deciso.
È questa la tesi di fondo del libro Emotionraising — Neuroscienze applicate al fundraising (Maggioli 2013), scritto da Francesco Ambrogetti, Fundraising advisor per l’Unaids di Ginevra, che in passato ha lavorato per diverse organizzazioni benefiche internazionali, come l’Unicef e la Croce Rossa inglese. Il libro riporta molti esempi di raccolte fondi andate a buon fine, proprio perché erano riuscite a colpire al cuore. In qualche caso quasi senza volerlo.
Come è successo a una signora americana di nome Karen, che fa un lavoro durissimo: tenere sotto controllo i vandali che rovinano i mezzi pubblici di trasporto. Un lavoraccio, nel quale viene continuamente bistrattata da giovinastri, come si vede in un video che la riprende all’opera, e che era stato messo in rete con l’obiettivo di raccogliere 5 mila dollari per regalare a Karen una breve vacanza.
Il video è diventato «virale» e due milioni di persone lo hanno visto. Risultato, 750 mila dollari raccolti in poche settimane. Altro che vacanza: Karen ha potuto creare una fondazione per il contrasto del bullismo.
L’immagine di quella donna continuamente insultata e umiliata è arrivata dritta ai sistemi limbici delle persone che hanno visto il video e che si sono immediatamente mobilitate. «Ho avuto modo di discutere di questo fenomeno con diversi colleghi» dice Ambrogetti. «Mi dicevano: "Ma come? Noi ci facciamo in quattro per raccogliere fondi per disastri umanitari o per la cura delle malattie che uccidono milioni di innocenti e questa signora riesce a raccogliere migliaia di dollari per una vacanza?". Questa campagna non è stata pensata da una creativa agenzia pubblicitaria né da un fundraising professionista. E tuttavia ha avuto il potere di generare un’emozione, cioè la rabbia, che ha mobilitato milioni di persone».
Che l’aspetto emotivo e non quello razionale sia la scintilla che attiva le persone è dimostrato anche dal fatto che le mobilitazioni sono molto più facili per eventi catastrofici che colpiscono con un’ondata emotiva, come il terremoto dell’Aquila, piuttosto che per disastri endemici come i bambini affamati dell’Africa. Anche se in termini di vite perse questi ultimi hanno un impatto certamente maggiore. Ma la persistenza nel tempo crea un effetto di abitudine che fa perdere impatto emotivo.
C’è poi un altro fenomeno da tenere presente, la cosiddetta paralisi emotiva. «Si tratta di un fenomeno per cui gli individui diventano gradualmente insensibili alla dimensione della sofferenza umana — spiega Ambrogetti —. Per esempio, è dimostrata l’esistenza di un forte aumento dell’empatia quando il numero di coloro che soffrono passa da zero a un individuo, mentre in seguito vi è una graduale diminuzione, quando si passa da una vittima a due, tre, e così via. Quando il numero di coloro che soffrono diventa eccezionalmente grande, come nel caso di genocidi e carestie, le emozioni di simpatia ed empatia diminuiscono, al punto che le persone reagiscono emotivamente meno a situazioni di sofferenza di massa rispetto a situazioni più circoscritte». Evidentemente è perché sui casi singoli si ha anche la sensazione di poter fare qualcosa.
È proprio per queste ragioni che la recente tendenza nella raccolta fondi è quella di far ricorso a storie individuali, fortemente rappresentative, che più facilmente attivano i comportamenti altruistici, essendo in grado di mettere in moto le giuste risposte neuro ormonali.
Nel processo sono coinvolti anche i cosiddetti neuroni specchio — scoperti da un gruppo di studiosi italiani dell’Università di Parma, guidati da Giacomo Rizzolatti — che contribuiscono al fenomeno dell’empatia.
«Se riusciamo a mostrare con immagini, parole e odori quello che altri esseri umani provano — dice ancora Ambrogetti —, riusciremo anche ad attivare una parte del cervello che farà sentire ai nostri interlocutori le stesse sensazioni e attiverà aree motorie decisionali, ad esempio spingendo a contribuire a una donazione o a diventare un attivo militante di una particolare causa».
Danilo Di Diodoro