Valerio Cappelli, Corriere della Sera 08/09/2013, 8 settembre 2013
LA RIVINCITA DEI SIGNORI NESSUNO: «ORA MI FERMO PER INSEGNARE» —
Rosi chi? Gianfranco Rosi, un regista sconosciuto al grande pubblico, un outsider del cinema indipendente, riporta il Leone d’oro in Italia quindici anni dopo Così ridevano di Gianni Amelio, che al Lido aveva il nostro film più atteso. E invece ha vinto il documentario Sacro Gra, sull’umanità che vive nel raccordo stradale che cinge Roma. Rosi è sconosciuto perché i documentari hanno sempre vissuto una vita marginale, eppure ha avuto successo al Sundance, ai festival di Toronto e Amsterdam... «Non mi aspettavo nemmeno di essere ospitato nel concorso, figuriamoci la vittoria. Ci voleva un maestro rivoluzionario come Bertolucci per premiarmi».
È una delle prime volte che nei 70 anni del festival c’è un documentario.
«Come ho detto alla premiazione, non bisogna avere paura di questa parola. Le Monde e il Times hanno capito che un luogo come il raccordo anulare, un mondo a parte, poteva elevarsi ad altro e diventare universale. È stata la mia ex moglie a costringermi ad accettare questo progetto, che mi ha fatto riconciliare con Roma. Un luogo da cui parto e poi torno, una città difficile, un pantano anche culturale. Ho lavorato poco a Roma, ho fatto avanti e indietro con gli Stati Uniti, mi sono diplomato nel 1985 alla New York University Film School».
Di lei si sa pochissimo, sul web c’è scritto che ha 52 anni...
«Ne ho 49. Un documentarista deve restare anonimo. Non racconto mai la mia storia. Sono nato in Eritrea perché ad Asmara lavorava mio padre. Ma non dico altro, aprirei un territorio in cui non voglio entrare».
Il suo primo documentario, «Boatman», è del ‘93. Ne ha fatti solo altri tre prima di «Sacro Gra ».
«A Boatman ho lavorato quattro anni, cinque ce ne sono voluti per Below sea level . Con la stessa passione umanista ho vissuto sulla barca di un pescatore del Gange e nella comunità di senza tetto di un ex base militare del deserto californiano. Solo El Sicario-Room 164 è stato un instant movie, il monologo di un criminale del narcotraffico; l’ho incontrato in un motel del Centro-America, un tizio qualunque che potresti trovare al supermercato. Diceva che su cento rapiti ne tornano a casa cinque o sei. Quando lavoro, so quando inizio e mai quando finisco. Arriva il momento in cui le parole diventano storie e comincio a girare».
Quale altro film in gara la incuriosiva?
«The Unknown Known , il documentario di Errol Morris sull’ex Segretario della Difesa Usa Donald Rumsfeld».
È stato difficile realizzare «Sacro Gra»?
«Una fatica tremenda, anche fisica. Ma è la prima volta che ho un produttore. Qui mi ha contattato Nicolò Bassetti, un paesaggista-urbanista specializzato nel recupero di aree abbandonate. Mi ha permesso di scoprire persone, abitudini, ritmi di vita, mestieri che bisogna preservare. Mi sono addentrato in una foresta inesplorata».
Come lavora un documentarista?
«Mi occupo di tutto, perfino del suono. Mi piace lavorare in solitudine. Non inseguo una verità assoluta. Ci dev’essere l’incontro con un luogo, poi vengono i personaggi e la storia. Ogni storia si propone in modo diverso, non ho un approccio stilistico. Alla fine, per un anno non guardo il materiale, continuo a girare, i film li scrivo facendoli. Poi organizzo le emozioni, si configura un ordine attraverso il montaggio. Tra sei mesi capirò che film ho realizzato».
Ora cosa farà?
«Non volevo girare questo documentario, volevo tornare a New York. Sono un nomade. Penso che insegnerò per un anno in America, voglio dire agli studenti di lavorare da soli, di essere indipendenti, di amare i documentari per la forza della sperimentazione che hanno. L’unica salvezza è la creatività dell’individuo».
Quando girerà un film «normale»?
«Per me questo è un film normale».
Valerio Cappelli