Tommaso Labate, Corriere della Sera 08/09/2013, 8 settembre 2013
LE TELEFONATE DEL CAVALIERE: VOGLIO GARANZIE —
«L’unica cosa che ho in mente è una grande battaglia libertaria. Per questo, adesso, al Pd chiedo solo che mi sia consentito nella giunta del Senato quel diritto di difesa che è stato concesso in passato a tutti. Vorrei essere trattato come un cittadino normale».
Nessuna minaccia all’esecutivo. Nessuna parola contro il presidente della Repubblica. Nessun ultimatum. Al contrario due sere fa, dopo cena, Silvio Berlusconi ha riattivato — in prima persona — il canale di contatto con quegli esponenti (politici e non) vicini al centrosinistra e pure al Quirinale che aveva bruscamente interrotto a metà settimana.
Dall’altra parte del telefono si aspettavano dall’ex premier un ulteriore pressing su come il Pd si esprimerà nel voto sulla decadenza, magari una richiesta esplicita da indirizzare a Guglielmo Epifani, magari che il Cavaliere ripetesse la metafora della barca («Se due amici sono in barca, uno dei due butta a mare l’altro e la barca sbanda, di chi sarebbe la colpa?») con la quale aveva minacciato il governo Letta nella recente intervista rilasciata al settimanale Tempi . E invece niente. «Dite a Enrico Letta che io sono una persona seria» s’è lasciato sfuggire, che non «vorrei che questo governo cadesse» e , soprattutto, che «al Pd chiedo soltanto una cosa: che mi si garantisca il diritto alla difesa».
Berlusconi ha capito che non ci sono margini perché il voto dei Democratici in giunta sia diverso da quel «sì» alla decadenza che tutti gli esponenti del partito di Epifani ripetono come se fosse un mantra. E ha anche capito che i margini perché Giorgio Napolitano si spinga oltre i paletti fissati nella nota del 13 agosto sono praticamente nulli. Per questo, adesso, si appella alla «non ostilità» sui tempi del Senato. Tempi che, stando all’ultima stima che il gruppo parlamentare del Pdl a Palazzo Madama gli ha confezionato su un foglietto di carta, potrebbero allungarsi anche oltre la fine di settembre. E solo perché si arrivi al voto nella giunta presieduta da Dario Stefano.
Le carte sono sul tavolo. E gli obiettivi minimi, ad Arcore, si sono ridotti a due. Il primo è fare in modo che la Corte d’appello di Milano, a cui la Cassazione ha rimandato il ricalcolo della pena accessoria, emetta il giudizio prima che il Senato certifichi la decadenza. Anche perché Berlusconi punta a che l’interdizione dai pubblici uffici sia ridotta a un anno e teme che, con la «sentenza» di Palazzo Madama già emessa, anche le previsioni più ottimistiche possano volgere al peggio. Il secondo, invece, rimanda al ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Perché, come i suoi avvocati gli hanno spiegato in una delle ultime riunioni, «è difficilissimo che la corte di Strasburgo ammetta il ricorso. Ma, se lo ammettesse, l’esame potrebbe essere lungo. E il dossier, a prescindere da come andrà a finire, si trasformerebbe immediatamente in un caso internazionale». In un caso, è il sottotesto, rispetto a cui chiedere al Senato di prendere ancora tempo sarebbe molto più facile. In una «questione umanitaria», insomma.
Quest’ultima partita può cominciare anche se il Pd mantiene la linea della «fermezza». L’importante è che non ci siano brusche accelerazioni su tempi, che infatti sembrano essersi allontanate dall’orizzonte. «Noi chiediamo al Pd che vengano rispettati i diritti umani di un cittadino, Silvio Berlusconi, che negli ultimi due anni ha dimostrato un senso di responsabilità senza precedenti nei confronti dell’Italia», è l’appello di Mariastella Gelmini. Non troppo lontano, nei toni e nei modi, da quell’appello che il Cavaliere in persona ha trasmesso venerdì sera agli ambasciatori con Palazzo Chigi e il Quirinale: «Voglio il diritto a difendermi, solo questo».
Che si tratti di una linea morbida rispetto alle brusche accelerazioni verso la crisi di tre giorni fa è un fatto. Comprovato anche dalla lista provvisoria di nomi a cui Berlusconi avrebbe intenzione di affidare il lancio della nuova Forza Italia. Il Cavaliere ha pensato a un «gruppo base» di lavoro affidato a cinque persone: Angelino Alfano, Renato Schifani, Renato Brunetta, Denis Verdini e Sandro Bondi. A questi si dovrebbero affiancare, tra gli altri, anche Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla. Altre caselle sono in via di definizione ma, al momento, nella mini-lista non comparirebbe il nome di Daniela Santanchè, la «pitonessa» nemica numero uno del governo Letta, che ieri da Sanremo è tornata ad attaccare la magistratura («Contro Berlusconi sentenze politiche») e anche il Quirinale («Mi sono pentita di aver votato Giorgio Napolitano»).
Altra musica rispetto ai toni che si sentono ad Arcore nelle ultime ore. Dove Berlusconi sembra aver momentaneamente deposto — anche nei colloqui privati — l’ascia di guerra usata contro il Quirinale. Anche perché è in quel palazzo, e l’ex premier lo sa, che si giocano le sorti future di quel provvedimento di clemenza su cui i figli del Cavaliere continuano a insistere. Tutti, da Marina a Luigi passando per Barbara, che in un’intervista rilasciata a Maria Latella per il Messaggero ha adombrato la presenza di «una lobby che vuole eliminare mio padre». Clemenza, grazia o commutazione della pena che sia, su cui insiste con sempre maggiore forza anche la fidanzata Francesca Pascale, che con la prole berlusconiana (soprattutto con Marina) ha stretto un rapporto solido. E che a «Silvio» continua a ripetere sempre la stessa cosa: «Adesso, prima che alla politica, devi pensare a te stesso».
Tommaso Labate