Nino Materi, il Giornale 6/9/2013, 6 settembre 2013
IL POETA, IL PREPOTENTE, LA SPIA ECCO LE «TRIBU’» DIETRO LE SBARRE
Il mare di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, sembra uno specchio in frantumi. All’ora dell’aperitivo i turisti lasciano i riflessi del sole e, sotto il porticato del molo, cominciano a riflettere sul menù del giorno. La frittura di paranza va via che è un piacere. Tra i tavoli con vista sugli yacht e una statua del dio Nettuno, c’è anche una piccola libreria; dalla vetrina occhieggia il ritaglio ingiallito di un giornale con la parola «Galera». «Galera» è il titolo di un «diario» unico nel suo genere: quello dell’ex comandante di reparto della casa di reclusione di Porto Azzurro. Lui si chiama Mario Palazzo e dal 1987 al 2003 ha vissuto «rinchiuso» nella fortezza dell’ex Porto Longone, definita «la Cayenna del Mediterraneo» per i numerosi condannati all’ergastolo e per l’estremo rigore che vigeva tra quelle mura medievali. Leggere «Galera» sotto l’ombrellone stesi sulla sdraio non è facile: l’assoluto stato di libertà (fisica e mentale) con cui ti stai tuffando nel gorgo nero di quegli appunti carcerari, fa infatti a cazzotti con lo stato di segregazione di cui sono intrisi i drammi narrati dal comandate Palazzo.
Un viaggio durato 40 anni nel mondo segreto della galera, a contatto con detenuti rei dei peggiori reati; celle, quelle del carcere dell’Elba, che condividevano la stessa sinistra fama dei penitenziari di Pianosa («l’isola del diavolo»), Ventotene («l’isola del dolore») e Napoli-Poggio Reale («il carcere della morte»). Da qui è transitata gran parte degli ergastolani d’Italia, compresi i condannati dalla malagiustizia, come nel caso di Enzo Tortora, Salvatore e Sebastiano Gallo, Antonino Spanò, Salvatore Bonello e Rosario Mulè: tutti sbattuti dentro e assolti dopo anni di ingiusta galera. Un libro che racconta la celebre rivolta di Porto Azzurro capeggiata dal terrorista nero Mario Tuti e l’arrivo nella sezione di massima sicurezza di Pianosa dei mandanti della strage giudici Falcone e Borsellino. Il comandante Palazzo, dalla sua torretta di guardia, ha sorvegliato personaggi come l’anarchico Bertoli e il bandito Mesina: di tutti ha annotato tic e mania. Una precisione da entomologo penitenziario che gli ha permesso di tracciare una mappa delle varie «specie» carcerarie: dal detenuto tossicodipendente a quello corruttore; dal violento allo scrittore; dal prepotente all’autolesionista; dall’insopportabile al depresso; dal confidente al poeta. Già, perché anche tra cancelli e lucchetti possono nascere versi commuoventi. Scrive il detenuto Claudio Cratus: «Sebbene per la società sia soltanto un numero, io esisto! Chiudo gli occhi per non vedere, per tornare ai miei sogni...ma nel mio cuore scende come pietra la mia vita dannata». Gli fa eco il suo «collega» Antonino: «Qui,dove siamo come animali...Qui, in carcere, continuando a sperare». Appena ventenne Mario Palazzo si arruola nel corpo degli Agenti di custodia (l’attuale Polizia Penitenziaria) e nel corso di quasi mezzo secolo di carriera si impone di coniugare il rispetto per la legalità con il senso di umanità. Le 243 pagine di «Galera» sono la testimonianza diretta di questo sforzo a contatto con galeotti di «razze» diverse, abituati a scannarsi tra loro prima che, nel 1986, l’introduzione della Legge Gozzini restituisse un minimo di dignità anche all’universo carcerario. «La Legge Gozzini - racconta Palazzo ha salvato carceri, carcerieri e carcerati da una giungla spietata di abusi e soprusi, dove inevitabilmente si fabbricavano belve umane di ogni genere e carnefici di inaudita ferocia pronti a uccidere per un nonnulla». Gli episodi narrati dall’ex comandante del carcere di Porto Azzurro complice una prosa da «mattinale» di questura - risultano a volte tragicomici. Come quando il detenuto violento, Guadagnolo Roberto, al momento della sentenza «seminò il panico nell’aula del tribunale, rompendo panche e offendendo verbalmente il presidente». Annota Palazzo: «La reazione del personale fu immediata, lo immobilizzarono impiegando la forza fisica, gli restituirono alcuni pugni che avevano ricevuti e lo ricoverarono in infermeria». Per non parlare poi di quel prepotente di Nikolin Pishkashi, albanese: «Pishkashi, spalleggiato dal cognato Cipo, si recava nelle celle di altri carcerati e chiedeva, educatamente, in prestito vino, sigarette, caffè e altro. Se la richiesta veniva esaudita tutto andava bene, qualora venisse rifiutata minacciavano e con prepotenza si prendevano lo stesso i generi che avevano richiesto». Era la legge del carcere. L’unica davvero uguale per tutti.