Stefano Zurlo, il Giornale 6/9/2013, 6 settembre 2013
QUANDO VUOLE, NAPOLITANO DA’ LA GRAZIA
La regola e l’eccezione. La grazia può essere concessa dal presidente della repubblica solo e soltanto per «ragioni umanitarie». Una formula coniata dalla Corte costituzionale nel 2006 e diventata una sorta di vangelo laico per il Quirinale. Una diga anche contro il pressing di chi vorrebbe la grazia per Berlusconi. La sostanza del messaggio è chiara: «Il Quirinale non può firmare un provvedimento di clemenza per il Cavaliere perché deve rispettare le direttive della Consulta». È vero. Quasi sempre. E in quel quasi c’è tutto lo spazio della contraddizione. Sì. Qualche volta si deraglia dalla linea tracciata e si scopre che la clemenza è diventata uno strumento per fare politica estera o per mandare un messaggio al Parlamento. Niente di scandaloso: è che Giorgio Napolitano in talune circostanze è andato ben oltre il limite che lui stesso si era dato. Insomma, quando ha graziato il colonnello americano Joseph Romano e in un certo senso pure quando ha commutato la pena del direttore del Giornale Alessandro Sallusti, Napolitano ha dato uno strappo alla tela tessuta con il filo della Consulta e da lui stesso sempre venerata come un’icona.
Romano viene condannato a sette anni di carcere per una vicenda gravissima, il sequestro dell’imam Abu Omar, rapito in una strada di Milano da un team della Cia nel corso di un’operazione antiterrorismo, trasferito al Cairo e torturato. Quando la sentenza diventa irrevocabile, Romano è già lontano dall’Italia e si guarda bene dal rientrare nel nostro Paese. Diventa, tecnicamente, un latitante come tutti gli altri condannati per la rendition. Non sconta un giorno che sia uno di pena e non rinnega, o almeno così risulta, il proprio passato. Siamo ben al di là dei confini delle ragioni umanitarie che giustificano un provvedimento di clemenza. Ma Napolitano non si ferma e, a sorpresa, accoglie la domanda presentata dal legale del colonnello. Anzi, l’intervento a piedi uniti del Presidente sembra di fatto un quarto grado di giudizio che sconfessa i verdetti della magistratura. Esattamente il contrario di quel che dal 2006 Consulta e Quirinale predicano con una voce.
Napolitano lo sa e prova a spiegarlo nel comunicato del 5 aprile 2013 in cui declina la necessità di ovviare «a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle relazioni bilaterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzione dei comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza». Il Presidente non vive in una torre d’avorio e quel sofferto documento certifica la sua scala di valori: l’interesse a non compromettere i buoni rapporti con gli Usa ha prevalso sui rigidi criteri seguiti fino a quel momento. Napolitano aggiunge che «la decisione è ispirata allo stesso principio che l’Italia, sul piano della giurisdizione, cerca di far valere per i due marò in India». Appunto: con quell’atto il Presidente attua la sua politica estera. E manda almeno due segnali:agli Usa e all’India, nel tentativo di sbloccare la drammatica e convulsa vicenda dei due marò prigionieri di Delhi da molti mesi.
Qualcosa di simile, anche se in modo meno clamoroso, è avvenuto dopo la condanna a 14 mesi di Alessandro Sallusti. In quel caso, con Sallusti costretto agli arresti domiciliari, Napolitano ha impugnato la bacchetta e ha dato il via a un esercizio di magia previsto dal codice: i mesi di carcere sono diventati una pena pecuniaria. Soldi. Ma soprattutto un siluro al Parlamento, dunque un atto politico accorato, davanti al fiume di chiacchiere dei partiti che da anni teorizzano la necessità di scrivere una nuova legge sulla diffamazione senza concludere nulla. Quando ha voluto, Napolitano ha dato la grazia anche per ragioni politiche.