Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 06 Venerdì calendario

QUANDO VUOLE, NAPOLITANO DA’ LA GRAZIA

La regola e l’eccezione. La grazia può essere concessa dal presidente della repubblica so­lo e soltanto per «ragioni uma­nitarie». Una formula coniata dalla Corte costituzionale nel 2006 e diventata una sorta di vangelo laico per il Quirinale. Una diga anche contro il pres­sing di chi vorrebbe la grazia per Berlusconi. La sostanza del messaggio è chiara: «Il Quirina­le no­n può firmare un provvedi­mento di clemenza per il Cava­liere perché deve rispettare le direttive della Consulta». È ve­ro. Quasi sempre. E in quel qua­si c’è tutto lo spazio della con­traddizione. Sì. Qualche volta si deraglia dalla linea tracciata e si scopre che la clemenza è di­ventata uno strumento per fare politica estera o per mandare un messaggio al Parlamento. Niente di scandaloso: è che Giorgio Napolitano in talune circostanze è andato ben oltre il limite che lui stesso si era da­to. Insomma, quando ha grazia­to il ­colonnello americano Joseph Romano e in un certo senso pure quando ha commutato la pena del direttore del Giornale Alessandro Sallusti, Napolita­no ha dato uno strappo alla tela tessuta con il filo della Consulta e da lui stesso sempre venerata come un’icona.
Romano viene condannato a sette anni di carcere per una vi­cenda gravissima, il sequestro dell’imam Abu Omar, rapito in una strada di Milano da un te­am della Cia nel corso di un’operazione antiterrorismo, trasferito al Cairo e torturato. Quando la sentenza diventa ir­revocabile, Romano è già lonta­no dall’Italia e si guarda bene dal rientrare nel nostro Paese. Diventa, tecnicamente, un latitante come tutti gli altri condan­nati per la rendition. Non sconta un giorno che sia uno di pena e non rinnega, o almeno così ri­sulta, il proprio passato. Siamo ben al di là dei confini delle ra­gioni umanitarie che giustifica­no un provvedimento di cle­menza. Ma Napolitano non si ferma e, a sorpresa, accoglie la domanda presentata dal legale del colonnello. Anzi, l’interven­to a piedi uniti del Presidente sembra di fatto un quarto gra­do di giudizio che sconfessa i verdetti della magistratura. Esattamente il contrario di quel che dal 2006 Consulta e Quirinale predicano con una voce.
Napolitano lo sa e prova a spiegarlo nel comunicato del 5 aprile 2013 in cui declina la ne­cessità di ovviare «a una situa­zione di evidente delicatezza sotto il profilo delle relazioni bi­laterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rap­porti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzio­ne dei comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza». Il Presi­dente non vive in una torre d’avorio e quel sofferto docu­mento certifica la sua scala di valori: l’interesse a non com­promettere i buoni rapporti con gli Usa ha prevalso sui rigi­di criteri seguiti fino a quel mo­mento. Napolitano aggiunge che «la decisione è ispirata allo stesso principio che l’Italia, sul piano della giurisdizione, cer­ca di far valere per i due marò in India». Appunto: con quell’at­to il Presidente attua la sua poli­tica estera. E manda almeno due segnali:agli Usa e all’India, nel tentativo di sbloccare la drammatica e convulsa vicen­da dei due marò prigionieri di Delhi da molti mesi.
Qualcosa di simile, anche se in modo meno clamoroso, è av­venuto dopo la condanna a 14 mesi di Alessandro Sallusti. In quel caso, con Sallusti costretto agli arresti domiciliari, Napoli­tano ha impugnato la bacchet­ta e ha dato il via a un esercizio di magia previsto dal codice: i mesi di carcere sono diventati una pena pecuniaria. Soldi. Ma soprattutto un siluro al Parla­mento, dunque un atto politico accorato, davanti al fiume di chiacchiere dei partiti che da anni teorizzano la necessità di scrivere una nuova legge sulla diffamazione senza conclude­re nulla. Quando ha voluto, Na­politano ha dato la grazia an­che per ragioni politiche.