Natalia Aspesi, il Venerdì 6/9/2013, 6 settembre 2013
QUEI CATTIVI RAGAZZI
CANNES. La sua, di adolescenza, è stata privilegiata e non solo perché protetta dall’agiatezza: quel tempo di inquietudine e incertezza lei l’ha vissuto in una famiglia unita e amorevole, una piccola tribù che si spostava nel mondo per seguire la carriera del padre: sempre tutti insieme, lui il barbuto grande regista Francis Ford Coppola, la madre Eleanor, documentarista geniale, i fratelli, Gian Carlo e Roman, e lei, la piccola del gruppo Sofia, che ha ereditato la passione e il talento del padre: fare cinema. Ma se tutto fu così luminoso e protetto, perché nei suoi film, le storie si accentrano su vite appena sbocciate, chiuse nel mistero di un’età difficile e per gli adulti impenetrabile, come se anche la sua adolescenza avesse nascosto sperdimenti e angosce inconfessate, mute? Oggi Sofia Coppola è una donna e nei suoi quarantadue anni ha conservato, come capita ormai a tante sue coetanee, la freschezza della giovinezza; è sottile, è vestita di un’eleganza semplice, ha bei capelli castani lisci, occhi scuri e pensosi, e un naso importante, di quelli che non si vedono più, e che contribuisce a renderla affascinante, unica.
E anche questo particolare denota la sua intelligenza, un rispetto profondo di sé: non si è fatta mascherare dalla chirurgia estetica, una specie di epidemia che sta distruggendo la bellezza delle donne, trasformate in tristi manichini tutti uguali.
L’incontro con lei non è facile: è gentile ma guardinga, seria e attenta a ogni parola, si capisce che per lei le interviste sono un dovere cui non si sottrae ma che la mettono a disagio: pure alla fine sorride come una ragazzina, e il suo viso pallido si riempie di luce. Eravamo a Cannes, in maggio, per il festival dove presentava nella sezione Un certain regard il suo ultimo film Bling Ring, che esce in Italia il 26 settembre: «È una storia vera, molto contemporanea, quella di un gruppo di quattro ragazzine più un amico, di famiglia benestante, che decidono di penetrare nelle case vuote delle celebrità hollywoodiane per rubare i volatili oggetti della moda, che determinano l’estetica dei cosiddetti vip: tutto ciò che è firmato, dalle borse alle scarpe, e poi, se li trovano, gioielli e anche denaro, droga: il loro sogno è essere famosi, con la casualità della fama di oggi, per la quale pare sufficiente sfoggiare una borsa di Gucci o le scarpe di Prada».
Per lei la moda, che ama molto, non è ostentazione ma grazia e rigore: quindicenne ha fatto uno stage da Chanel, adesso l’appassiona la semplicità di Marc Jacob. Quando la incontro, indossa un’elegante tubino senza maniche di pizzo bianco. La sua adolescenza, come la sua infanzia le ha vissute praticamente sul set. «Sono cresciuta col cinema, mio padre ci portava sempre con sé, ci teneva vicino: ricordo che avevo più o meno tre anni, eravamo in macchina, papà e mamma discutevano animatamente e a me non piaceva: io ero sul sedile di dietro, e a un certo punto non gridai, "Piantatela!" ma "Cut!" come si dice sul set quando una scena va interrotta. A nove restai quasi due anni nelle Filippine, dove papà girava Apocalypse Now, e mi piaceva perlustrare la foresta selvaggia. La mia prima comparsa in un film l’ho fatta a meno di un anno, ed ero il bambino da battezzare nel Padrino. Ne avevo 19 quando per Il Padrino, parte III, mio padre mi volle in sostituzione di Winona Ryder, che all’ultimo momento si era ritirata. Il ruolo era quello della figlia Mary di Michael Corleone, che era Al Pacino, uccisa in un agguato. Quest’ultima esperienza mi fece capire che il cinema mi piaceva tanto, ma che recitare non era il mio mestiere».
Il suo mestiere è scrivere la sceneggiatura di un film e girarlo, e le sue storie raccontano soprattutto della solitudine femminile. Il suicidio inspiegabile di cinque bellissime sorelle adolescenti (Il giardino delle vergini suicide); la malinconia della giovane sposa che mentre il marito fotografo è in giro per lavoro, resta chiusa in un albergo di Tokyo, la città sconosciuta di cui ignora la lingua, e fa amicizia con un vecchio attore depresso (Lost in Translation, Oscar per la sceneggiatura); lo sperdimento della quattordicenne Maria Antonietta arrivata nella ostile corte di Francia (Marie Antoinette); la ragazzina gentile e bisognosa d’amore, un amore che non trova nei genitori: importanti, separati e presi ognuno dai propri amori, professioni, frustrazioni (Somewhere, Leone d’oro a Venezia nel 2010). Poi si scopre che anche l’adolescenza di Sofia è stata turbata da un trauma: quando aveva 14 anni, l’amatissimo fratello Gian Carlo morì in uno scontro in un incidente di mare, lasciandola in un vuoto doloroso che l’ha spinta a sottoporsi alle cure di uno psicoanalista.
I genitori, pure loro straziati, le sono stati molto vicino, cosa che non capita alle quattro ragazzine e al loro compagno, di Bling Ring, il gruppetto di ladruncole californiane che le hanno ispirato il film dallo stesso titolo. I padri non ci sono mai, hanno altre vite, le madri curano la loro depressione dedicandosi ad altro ed esortano le figlie ad aver come modello di vita Angelina Jolie. Tra il 2008 e il 2009 queste adolescenti di uno dei più ricchi quartieri di Los Angeles rubarono nelle ville di Hollywood oggetti firmati per 3 milioni di dollari nelle case vuote, e incustodite, di giovani celebrità come Megan Fox, Orlando Bloom, Paris Hilton: di giorno a scuola, di notte l’emozione del furto con scasso, tra le sniffate e l’alcol, per impossessarsi di oggetti di culto mercantile, e immedesimarsi nei loro idoli. È Internet con la sua valanga di gossip decerebrati a informare quando i padroni delle lussuose case di vetro sono altrove. Ma i guardaroba delle giovani celebrity rigurgitano talmente di prodotti della moda, che i proprietari non si accorgono dei furti ripetuti, nel caso della villa di Paris Hilton, per ben otto volte. Ma tale è la smania di celebrità di questa diva del nulla, famosa per essere famosa, da consentire di lasciar girare una parte del film nella sua casa-museo del cattivo gusto: tutta nero e oro, invasa da cuscini col suo ritratto, con una sfilata di stanze guardaroba che contengono migliaia di scarpe («che piedone!» si lamenta una ladruncola), borse, rolex, alta moda italiana e francese. Alla fine le ragazzine, tra cui una insignificante Emily Watson, quella di Harry Potter, vengono individuate, arrestate, processate, ma solo il ragazzo e due di loro faranno qualche mese di prigione. Per tutte però arriva quello che desideravano da sempre, l’attimo di celebrità: non erano nessuno, dopo l’arresto le intervistano, le fotografano. E imparano a dire, come il loro idolo Angelina Jolie, «faremo beneficienza nei Paesi africani».
«Questa idolatria per la celebrità e per gli oggetti firmati non esisteva», dice la Coppola. «Io vivevo con una celebrità, mio padre, in casa venivano Pacino e De Niro e altri, ma non si sentivano speciali, ed erano amati per il loro valore, per i film che facevano non perché famosi. Vorrei proteggere le mie figlie da questa deriva di superficialità, e alla fine d’infelicità. Penso che sia già importante far sentire il calore della famiglia unita, come è la mia, e anche non vivere stabilmente a Hollywood».
Sofia non parla della sua vita privata: ma le cronache raccontano del suo matrimonio nel palazzo albergo di loro proprietà a Bernalda, in provincia di Matera, luogo d’origine dei Coppola, che lì possiedono immensi vigneti come in California, dove Francis Ford produce ottimo e costoso vino. Era l’agosto del 2011, e lei e il suo sposo Thomas Mars, cantante della band francese Phoenix, avevano già due bambine, Romy, dal nome del fratello Roman, regista, nata nel 2006, e Cosima, del 2010. C’era stata prima una storia con Tarantino, poi un primo matrimonio con il regista Spike Jonze finito nel 2003. I coniugi Mars vivono a Parigi, a New York e sono spesso ospiti degli inseparabili Francis Ford e Eleanor Coppola, a Napa Valley, una immensa tenuta in California, dove il grande regista coltiva appassionatamente di tutto.
Natalia Aspesi