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 2013  settembre 06 Venerdì calendario

SACKS, DROGA

& ROCK’N ROLL–

NEW YORK. Oliver Sacks è franco, cordiale, nonostante un’insormontabile timidezza, ma si racconta seguendo le proprie priorità, come fossero criteri di valutazione universali. Svela subito di avere appena compiuto 80 anni e che il numero 80 corrisponde al mercurio nella tavola periodica di Mendeleev, il chimico russo che ordinò gli elementi chimici in base al loro peso atomico. Poi impacciato ti guarda, interlocutorio: a una signora, si sa, l’età non si chiede, ma sapere se corrispondi anagraficamente a un gas inerte o a un metallo alcalino, se sei uranio, carbonio o piombo, deve essere per lui come ricevere il tuo biglietto da visita. E allora ti sveli, delusa di scoprire che il numero dei tuoi anni contrassegna un metallo prodotto artificialmente, che non esiste in natura: ti senti un po’ sintetica, contraffatta, ma subito Sacks ti incoraggia, enunciando qualità insospettabili del tuo metallo anagrafico. Sul muro del suo studio di Manhattan, nell’edificio dove abita da 47 anni, un dipinto raffigura Mendeleev, barba e capelli al vento, che brandisce la sua preziosa tavola: «Giovane ebreo appassionato di chimica, c’era un tempo che lo scambiavo per Mosè».
Intorno a Sacks ci sono decine e decine di minuscole felci, la sua passione, e di pozzetti di metallo affastellati su ogni superficie piana. Il dottore afferra due barrette e te le mette in mano: la forma è identica, ma una è pesantissima, l’altra una piuma. Ed eccolo lì che ti scruta di sottecchi, sornione, in attesa di una reazione. Se sgrani gli occhi è soddisfatto, se la fronte ti si corruccia in un punto interrogativo ancora di più. E via sulle straordinarie qualità del tungsteno e del magnesio: roba che farebbe gongolare chiunque, a sentirsi descrivere così.
Poi spiega: «Nei quattro anni che da bambino passai in collegio, durante la guerra, con un preside depravato che ci picchiava senza pietà e compagni bulli e spietati, trovai rifugio nei numeri e nella scienza: uniche sicurezze imperturbabili in un mondo sadico e caotico. Quando tornai a Londra – a casa – ero introverso, disturbato, ma bastava che avessi in mano un metallo o una pianta per vincere ogni paura».
Oliver Sacks ha raccontato quell’infanzia tra crudeltà e ricerca, insicurezza e voglia di sapere, nello Zio Tungsteno; e la sua successiva maturità di neurologo in capolavori come Risvegli, che ispirò a Penny Marshall il film con De Niro e Robin Williams e a Harold Pinter una play. Oppure L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, che a portare in teatro fu Peter Brook. Ora, per la prima volta, Sacks squarcia il velo della propria giovinezza: narra gli anni in cui lasciò per sempre l’Inghilterra con i suoi freni inibitori per le libertà d’America; e una famiglia affollata (tre fratelli, cento cugini, trenta e passa zii) per una vita di solitudine (non ha mai più vissuto con nessuno e, se gli chiedi perché, si alza spinto da un’urgenza irrefrenabile di prendere qualcosa nella stanza accanto).
Il suo nuovo libro, Allucinazioni, edito come tutti gli altri da Adelphi (pp. 332, euro 19), è sì un’antologia di stati allucinatori d’ogni tipo – pazienti convinti di vedere o udire o fiutare o toccare cose inesistenti – ma è anche una confessione tardiva del lungo, pericoloso flirt del giovane Oliver con gli allucinogeni Anni 60. Una nuova straordinaria carrellata di casi clinici, in cui patologie e biografie dei malati si intrecciano in vicende bizzarre, secondo la cifra inconfondibile di questo scienziato dalla penna magica, ma anche un inedito Sacks ventisettenne, appena laureato a Oxford, che sfreccia per gli States in moto, facendosi senza freno di cannabis, Lsd, anfetamine...
«Di allucinazioni si è sempre parlato poco, perché paiono allarmanti: diverse dal sogno, indipendenti dalla volontà, sono esperienze sbalorditive, in cui si percepisce ciò che nessun altro avverte. E questo spaventa: lo si associa alla follia». Ma Sacks ama gli scarti dalla norma e, a smentire il timore diffuso, si dichiara subito un habitué delle allucinazioni. Le prime da bambino, quando aveva attacchi di emicrania; l’ultima qualche giorno fa: «Da quando ho perso l’occhio destro per via di un melanoma, il mio cervello compensa le immagini perdute con suggestive visioni geometriche». Ora un occhio di Sacks è immobile; l’altro, schivo, sfugge agli sguardi. E, tanto per scoprire senza indugio ogni fragilità, il dottore mostra anche il suo apparecchio acustico. Quindi ricorda di soffrire di prosopagnosia, l’incapacità di riconoscere i volti delle persone, compreso il proprio allo specchio: «Ho imparato a identificare gli amici dalla voce, dai gesti...»
Nel suo accento british, incontaminato da 53 anni di vita yankee, la conversazione di Sacks procede a zigzag, ma non perde il filo conduttore: «Le allucinazioni sono assai più diffuse di quel che non si pensi e, potendo eccitare, terrorizzare, ispirare, hanno avuto un ruolo importante nella cultura, che sia arte, folclore o religione».
Pare ad esempio che Piranesi abbia concepito le Carceri durante i deliri della malaria; che Guy de Maupassant, malato di neurosifilide, fosse perseguitato da un suo doppio, ispiratore della novella L’Horla; che paradossi e assurdità di Alice nel paese della meraviglie siano forse dovuti alle emicranie di Lewis Carroll... E che dire di fate e folletti, demoni e streghe della tradizione popolare? O delle crisi «estatiche» di Giovanna d’Arco o Dostoevskij, due epilettici convinti che i loro attacchi li mettessero in contatto con il Signore? Sacks sorride: «Sono un ebreo ateo da quando, a 6-7 anni, in quell’atroce collegio, mi sono sentito abbandonato dai miei genitori e da Dio».
Quel drammatico periodo (vissuto insieme a un fratello, che ne uscì psicotico) lascia mille paure in Oliver, che le tiene a bada sfidando i propri limiti, mettendosi continuamente a rischio, beffeggiando la morte. Da bambino, con pericolosi esperimenti chimici, tutti esplosioni e incendi. A 11 anni, con disgustose dissezioni di cadaveri, al seguito della mamma medico. Infine, da grande, con le droghe. Prima divora i libri di De Quincey, Baudelaire, Gautier, Poe, Huxley, legge pubblicazioni sul peyote... Poi ordina per posta l’Lsd (nel 1953 è legale) e con un amico si prepara al «viaggio» – musica, occhi chiusi – ma non accade nulla: la dose è troppo piccola, la delusione grande. «Non ci riprovai più fino ai 30 anni, quando ero già neurologo in California. Per capire come funziona la mente durante le allucinazioni, mi dicevo, ma c’era di più: volevo anche spingermi oltre me stesso, allentare le inibizioni, trovare una scorciatoia per il piacere e l’euforia...»
Sacks era arrivato in America tre anni prima, inseguendo il sogno giovanile degli spazi sconfinati, delle infinite possibilità. «Scappavo dai miei genitori, che accusavo anche di colpe non commesse; dalla vecchia Inghilterra classista e poco libertaria; da una gerarchia medica rigida e affollata, dove era difficile farsi strada per un ragazzo chiuso e strano come me». Il suo sguardo ha un che di malinconico mentre sussurra che da 47 anni, due volte a settimana, va dallo stesso psicoanalista. «Il libro che sto scrivendo parla proprio di quella mia fuga negli States. Prima in Canada, poi in California: in attesa della green card, girai il Paese in moto, senza un soldo. Poi aiutai in un ospedale di San Francisco: in camice bianco ero Oliver; la notte, on the road, ero Wolf, Lupo, il mio secondo nome. E una mia antica fantasia: disperatamente solo, in quel collegio, avevo raccontato in giro di essere stato abbandonato e allevato da un branco di lupi».
«Ma fu solo nel ‘62, quando iniziai l’internato in Neurologia all’Università della California, che mi feci la prima canna. Cannabis, Lsd, semi di ipomea: durante la settimana lavoravo, il weekend sperimentavo ogni sostanza. Spesso in dosi da cavallo. Con allucinazioni di ogni tipo. C’erano molti nodi psicologici irrisolti dietro quella doppia vita dissennata». Ha rischiato la tossicodipendenza? «Sono diventato un tossico. Quando non lavoravo, provavo un senso insopportabile di vuoto. E nell’estate del ‘65, in tre mesi di libertà tra l’internato a Los Angeles e un nuovo incarico di ricercatore a New York, sprofondai nelle droghe a tempo pieno, sperimentando anche le endovena. Poi, di nuovo al lavoro, ma depresso e insonne, passai ai sonniferi: fino a quindici volte la dose normale, con terribili deliri da astinenza. E alle anfetamine: le più pericolose, le più facili all’overdose. Allora studiavo le emicranie, un tema che mi seduceva quanto da bambino i numeri e i metalli, e una domenica, strafatto di anfetamine, lessi sul tema cinquecento pagine di un fantastico libro ottocentesco. Fu la folgorazione: nessuno scriveva più con quel mix di rigore scientifico e attenzione al lato umano della malattia. Decisi di provarci io».
La stesura del suo primo libro, Emicranie, nel ‘70, segna la svolta: l’abbandono definitivo delle droghe e l’inizio di un carisma quasi da sciamano. L’inibito e geniale Sacks diventa il medico che chiunque ha sempre sognato di avere, abbastanza ipocondriaco da provare forte empatia verso i suoi pazienti, così curioso della vita da svelarne le più fascinose complessità. «Dicono che le droghe ampliano la mente. Come tutti i viaggi. In realtà la restringono, perché sostituiscono la fantasia. Ho tirato la corda con il mio corpo e sono pieno di acciacchi, ma mi piacciono gli 80 anni: è l’età della libertà. Dalle ansie, soprattutto». Cambierebbe qualcosa? «La timidezza».
Antonella Barina