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 2013  settembre 06 Venerdì calendario

LA FATICA DI VIVERE SENZA UN TIRANNO

Il Discorso sulla servitù volontaria, che Etienne de La Boétie scrisse nel 1552, accese gli animi degli ugonotti, dei rivoluzionari francesi, dei primi comunisti, degli anarchici e di tutti coloro che scavalcavano le amarezze della realtà con una profonda fede nelle capacità dell’uomo. Succede così prendendo quell’opera di scorcio, proprio all’imboccatura, là dove La Boétie scrive che per togliere di mezzo il tiranno basta poco. Basta «che il popolo non acconsenta più a servirlo».
Come se fosse facile! E soprattutto: come se lo stesso autore, sia pure ad angolo di bocca, non riconoscesse, dopo, la ciclopica temerarietà dell’impresa. Ben venga dunque il saggio di Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Olivieri Il fascino dell’obbedienza (Mimesis, pagine 123, 12), che rimette in equilibrio il testo e non permette più che se ne vada saltellante per le strade del mondo, come per scansare le difficoltà di disobbedire alla tirannia. La prima delle quali è che il popolo non è (quasi) mai un popolo «primo», che comincia da zero. Alle sue spalle c’è tutto un passato di abitudini che appesantiscono assai il giogo dell’obbedienza. Sicché, superate le asperità degli inizi, il tiranno deve vedersela non già con i servi, ma con i figli e i nipoti dei servi, i quali, educati in un certo modo, si accontentano di vivere come sono nati. «Gli uomini — scrive La Boétie — sono come li fa l’educazione».
Si aggiunga che il popolo non è un essere unitario che si manifesta con compattezza di propositi. È composto da una molteplicità di individui che le tirannie si procurano di far rimanere «tutti soli e isolati nei loro desideri» (ancora così La Boétie). Con la conseguenza che, se anche qualcuno ribocca di insofferenza, non essendo sicuro dell’eguale insoddisfazione degli altri, passa volentieri la mano e lascia che sia sempre qualcun altro a dare per primo fuoco alle polveri.
Così, di passaggio in passaggio, ognuno regge il gioco del tiranno. Tanto più che la ribellione dovrebbe accendersi per la libertà, che chiama gli umani a decidere da sé del bene e del male e perciò li impegna in una impresa maledettamente faticosa. Tanto faticosa che le loro molle vitali, tese dagli spasimi della libertà, possono allentarsi e cedere al richiamo della quiete. Anche se supina e pusillanime. Ecco perché, scrive Ciaramelli, «la deriva della servitù nasce nel cuore della libertà» e «non può essere evitata una volta per tutte». A pensarci bene, la tragica grandezza della libertà sta tutta qui, nel convincimento che la parola ultima non si può mai pronunciare, proprio per il tremolio di incertezza che l’accompagna e che in fondo è il ritmo stesso della vita.
Gaetano Pecora