Fabrizio Galimberti, Il Sole 24 Ore 6/9/2013, 6 settembre 2013
YUAN NELLA «TOP-10» DELLE VALUTE PIÙ SCAMBIATE
I derivati - bisogna ammetterlo - non sono fra gli strumenti finanziari quelli che hanno miglior stampa. Creati nella bassa cucina dell’alta finanza, hanno fama di astruserie: manipolati dagli apprendisti stregoni delle società finanziarie, si affidano ad alchimie complesse per creare prodotti difficili da valutare e soggetti a crisi di liquidità. I difensori, tuttavia, argomentano, con ragione, che nella cassetta dei derivati ci sono mele marce, è vero, ma ci sono anche mele buone. E se quelle buone sono state «geneticamente modificate», questa alchimia non è stregonesca: è un utile strumento di copertura dai rischi.
Ogni tre anni la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) tasta il polso, nel mese di aprile, al mercato dei derivati, e ieri ha comunicato i risultati della «Survey» 2013. Mettendo assieme le transazioni sui mercati valutari (che comprendono però anche le transazioni spot - circa il 40% del totale) e quelle sui derivati relativi ai tassi di interesse, abbiamo un totale giornaliero nel mondo di circa 7,6 trilioni di dollari. Non ha senso comparare questa grandezza a quella del Pil mondiale, sia perché si tratta di valori nozionali, sia perché il Pil è un concetto di valore aggiunto mentre le transazioni sono un concetto di fatturato. Ha senso, però, guardare all’andamento nel tempo di questa enorme massa di scambi, che ha mostrato la capacità - vedasi l’innesco della Grande recessione - di trasformare la finanza nella «coda che muove il cane» dell’economia reale.
Fra il 2004 e il 2007 il combinato disposto delle transazioni su valute e tassi era aumentato di ben il 72%, mentre nel triennio seguente (2007-2010, il periodo che copre la grande crisi) questa crescita era bruscamente rallentata al 22 per cento. Un aumento tuttavia ancora rispettabile, e quasi doppio rispetto all’aumento nominale del Pil mondiale nel periodo. Fra il 2010 e il 2013 c’è stata ancora un’accelerazione, con un’espansione del 25%, ancora superiore a quella stimata del Pil in quel triennio (circa il 17%). Insomma, la «finanziarizzazione» dell’economia continua imperterrita. In parte questo è dovuto anche all’ammodernamento di quei mercati emergenti che coprono ormai la metà del prodotto mondiale, ma hanno sistemi finanziari ancora poco sviluppati. Per esempio, nelle transazioni valutarie lo yuan/renmimbi sta crescendo rapidamente. L’internazionalizzazione della moneta cinese avanza e le transazioni offshore hanno portato per la prima volta il renmimbi nei primi dieci posti nella classifica delle valute più trattate (è nono). Una classifica che è ancora dominata dal dollaro: la moneta Usa è controparte nell’87% delle transazioni; l’euro, al secondo posto, ha una quota del 33%, in diminuzione rispetto al 39% dell’aprile 2010.
Per i derivati sui tassi di interesse, invece, l’euro è al primo posto nei contratti Otc (over the counter), con un totale giornaliero di 1,1 trilioni di dollari, contro uno 0,7 trilioni per gli Usa. Questa preminenza riflette la grossa fetta di titoli pubblici dell’eurozona, e un più ampio ricorso ai prestiti bancari in Europa rispetto all’America.
Le transazioni sui derivati sono uno dei prodotti dell’industria finanziaria. Come si colloca l’Italia - cioè le società finanziarie italiane - in questo mercato? Il grafico mostra come la quota italiana sia andata declinando nel tempo. Piace pensare che questo declino sia dovuto alla «saggezza contadina» delle nostre banche, che non vogliono avere molto a che fare con questi strumenti. Ma i derivati sono qui e rimarranno per sempre. Meglio imparare a usarli e scambiarli e fare di quest’uso e di queste intermediazioni una fonte di profitti.