Gigi Garanzini, la Stampa 6/9/2013, 6 settembre 2013
AUGURI GENOA CENTOVENTI ANNI E NON SENTIRLI (O QUASI)
Li dimostra davvero tutti, povero vecchio Zena. Ma sono pur sempre 120 anni di storia, e nessun altro li può vantare nel calcio italiano. Cominciarono il 7 settembre del 1893 e forse non finiranno mai se solo pensiamo attraverso quali avventure e disavventure sono arrivati ai giorni nostri. La bellezza di nove scudetti, perduti nella notte dei tempi, tra il primo del 1898 disputato e vinto in un sol giorno e quello che nel ‘24 chiuse quel glorioso filotto rossoblu. L’anno precedente, l’estate del ’23, la prima tournée transoceanica di una squadra nostrana, in Argentina e in Uruguay. Quasi una visita alle colonie, perché non è difficile immaginare quale fosse in quegli anni il dialetto più diffuso, e più amato, al di qua e al di là del Rio de la Plata.
Il Vecchio Balordo lo chiamava Gianni Brera, che se ne è sempre dichiarato tifoso al pari di Enrico Ameri. Il sospetto che entrambi ciurlassero un tantino nel manico ha più di un fondamento: la taccia di filo-interisti, o milanisti, o juventini avrebbe indispettito tifoserie di ben altro spessore che non quella, tutto sommato resistibile, del Doria. Mentre tifoso-doc del Zena era certamente De Andrè: «Al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni serve un certo distacco verso quello che scrivi. Invece il Genoa troppo mi coinvolge». Basterebbe l’imbarazzata prolissità della frase a certificare che sì, il poeta di Creuza de Ma’ e di tanti versi folgoranti che mai ci stancheremo di cantare, con il Genoa di mezzo davvero si incartava. Persino di Frank Sinatra si dice fosse un vecchio cuore genoano: poi, della serie l’importante è esagerare, si narra persino che abbia preteso di essere sepolto in cravatta rossoblu.
La prima squadra ad aver messo sotto contratto un allenatore professionista, William Garbutt, giusto un secolo fa. La prima ad aver organizzato una trasferta per tifosi via mare, per il derby di Savona del’22:replicata mezzo secolo più tardi con il noleggio di una nave per raggiungere Sassari, dove il Genoa battè 1-0 la Torres. In C-1, mica in Coppa dei Campioni. Il mito di De Prà, poi Guillermo Stabile, poi Levratto che sfondava le reti e per questo finì – ah, la gloria- in una canzonetta del Quartetto Cetra. Ma da allora, dagli anni Trenta in poi, solo momenti effimeri, solo un paio di grandi stagioni di Pruzzo e trent’anni più tardi di Milito. Con un’unica, vera eccezione. Il magnifico Genoa di Bagnoli dei primi anni ’90, la prima squadra italiana capace di sbancare Anfield Road. Con Aguilera e Skuhravy, il povero Signorini, Eranio, Branco: un altro capolavoro di mastro Osvaldo, dopo quello che consegnò al Verona l’irripetibile scudetto dell’85.
Che non ci sentano i veronesi. Ma Bagnoli si innamorò di quella squadra, di quello stadio, di quel pubblico forse anche più di quanto non fosse accaduto a Verona, che pure è la sua città. Un giorno Monica, la figlia secondogenita, non vedente, gli chiese di andare allo stadio. Spiegando di essere rimasta colpita dal rumore di fondo che arrivava da Marassi nei collegamenti radiofonici. Osvaldo ovviamente esaudì. La sera, rientrando in macchina a Verona, Monica disse a suo padre che le era sembrato di vedere i colori. Il rosso e il blu. E il povero Bagnoli, che aveva appena firmato per l’Inter per avvicinarsi a casa, inghiottì a vuoto più volte.
Ecco, quello era il tifo del vecchio Zena. Non certo quello che ha imposto ai giocatori di sfilarsi le maglie contro il Siena. E provato l’anno prima, in tutti i modi, ma proprio tutti, a imporre ai giocatori di perdere in casa contro le squadre in lotta per la salvezza con il Doria. La squadra più antica d’Italia non merita di essere ostaggio di questa gentaglia. Così come meriterebbe dirigenti dal profilo etico ben diverso. Ma così va il mondo del nostro calcio. E forse si contenterebbe, la parte sana dell’antica gradinata nord, di vivere sì, di stenti, ma di vedere ogni tanto in maglia rossoblu un ragazzo nato alla Foce, a Boccadasse, a Crocefieschi, patria di Roberto Pruzzo. Gente, belìn, che i colori sociali li avrebbe cuciti sulla pelle. Figli, nipoti, bisnipoti di quelli che cent’anni fa trepidavano per un grande Genoa. Se continua a non succedere è perché qualcuno c’avrà la sua conveniensa.