Franco Cordero, la Repubblica 6/9/2013, 6 settembre 2013
IL SUDARIO DELLE LARGHE INTESE
Il tempo politico italiano tendeva al torpido ma ha dei soprassalti da quando lo infesta l’Olonese. Forte d’eufemismi Imu (saremo torchiati sotto nome diverso), mercoledì 28 agosto Letta jr. parla Urbi et et orbi: alleluja, non hanno più termine le “larghe intese”; l’invadente consorte se ne vanta; e adesso, avverte, resti sospeso l’antipatico affare della sua decadenza dal Senato. Spirava aria d’appeasement. L’indomani la guastano i cinque della Cassazione depositando 208 pagine letali: negli anni lo Statista frodava fisco e azionisti, autore d’una colossale macchina falsaria; ormai restano briciole della res iudicanda, il resto essendo inghiottito da prescrizione, indulto, condoni che gli affatturavano yesmen in livrea parlamentare. E lui sbraita le solite invettive: «sentenza allucinante, fondata sul nulla»; milioni d’italiani impediranno che un voto butti fuori il loro condottiero. Assalto al Palazzo d’Inverno? No, o almeno non ancora: il governo in carica, dichiara venerdì 30, dura finché lui sieda nel Senato, violando norme votate anche dal Pdl (d. lgs. 31 dicembre 2012 n. 235); simul stabunt, simul cadent («cadunt», declamava una volta; abilissimi nelle cacce fraudolente, gli alligatori valgono meno in grammatica latina). Sabato nega d’averlo detto ma lo ripete, in cura d’anima presso Marco Pannella. Staremo a vedere se e come sia decentemente graziabile un gangster da Gotham City: quanto pericoloso, lo dicono fulminee metamorfosi nelle cosiddette colombe e l’ascendente elettorale; una sonda gli dà 3 punti sul Pd.
L’incognita è fin dove arrivi l’abito subalterno nella quasi sinistra, e manca poco al test; lunedì 9 settembre, a Palazzo Madama, Giunta delle immunità, va in scena un dibattito: se B. sia decaduto dall’ufficio. Il “no” presuppone schieramenti così stralunati, che non vi conta nemmeno lui: gli basta perdere tempo (arma forense d’alto
rendimento); vuol mandare le carte alla Consulta; nel frattempo aspetta una sbalorditiva grazia; e se piovesse dal Colle, la spaccerebbe per sconfessione della res iudicata.
Formano l’ordigno bellico 6 opinioni d’8 giusloquenti. Le chiamavano “consilia sapientis”, un genere molto screditato, e stavolta pesano meno d’una piuma.
Primo quesito se la Giunta possa spedire gli atti alla Corte, lavandosi le mani. No, dicono i precedenti: domanda inammissibile; l’accertamento d’illegittimità avviene in via incidentale, ossia su impulso del giudice chiamato ad applicare la norma dubbia. Siamo fuori del processo. I glossatori lo definivano “actus trium personarum”: due parti contraddicono; un terzo decide, stando in medio. La Giunta appartiene al parlamento: il quale discute e vota leggi; se teme d’avere lavorato male, vi rimetta mano (Corte cost., ord. 22 ottobre 2008 n. 334). S’era mai visto il Senato attore d’un giudizio contra se ipsum (presunta invalidità delle norme che ha votato)? Ipotesi lunatica.
Nel merito, a sciogliere gl’ipocriti dubbi bastano l’idioma italiano e un’elementare sintassi del diritto. La legge individua i non candidabili (art. 65, comma 1, Cost.): spetta alla Camera competente dire se ricorra uno dei casi previsti (art. 66); ed è discorso burlesco che, essendo sovrana, possa mantenere nei banchi i legalmente esclusi dall’ufficio. Tra le norme vigenti (d. lgs. n. 235/2012) eccone due: l’art. 1 marchia “non candidabile” l’irrevocabilmente condannato; l’art. 3 contempla la “incandidabilità sopravvenuta”; identico l’esito; non sta nel pensabile un rifiuto d’applicare la norma. Sia detto en passant: in tali contesti “ineleggibile” e “non candidabile” sono sinonimi; è trucco vaniloquo distinguerli, come tenta uno dei sei “consilia”. Veniamo al clou della dottrina d’Arcore, formulabile così: la “incandidabilità” somiglia all’interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria; ed esiste dal 31 dicembre 2012; dunque colpisce solo l’autore dei fatti posteriori al 5 gennaio 2013, data dell’entrata in vigore (art. 25 Cost.: le norme penali non valgono in praeteritum).
Salta agli occhi la falsa premessa, che lo stato personale de quo sia pena nel senso tecnico. No, è profilassi parlamentare. Ogni pena presuppone una condanna che la infligga, e qui nessuno gliel’ha inflitta: gli artt. 1 e 3 l. c. escludono dall’elettorato passivo chiunque versi in date situazioni; l’esclusione avviene ex lege.
Vale l’art. 66 Cost.: causa ostativa sopravvenuta, a forti o rivarrebbe se la “incandidabilità” equivalesse a pena accessoria, perché le pene accessorie erano comminate prima che divus Berlusconi se le meritasse frodando mezzo mondo. Le Camere devono potersi ripulire delle presenze infestanti.
I berluscones agitano questioni manifestamente infondate. Sarebbe indecoroso simulare dubbi, dispute, incubazioni (dormire in luoghi consacrati sperando che qualche dio mandi lumi), ma pendono disonorevoli precedenti: Re Lanterna era ineleggibile ab ovo, quale concessionario dell’etere (art. 10, comma 1, d. P. R. 30 marzo 1956 n. 361), e sei volte, omertosamente, gli avversari l’hanno tenuto in arcione con risibili cavilli. Decoro e moralità a parte, è perdita secca assecondarlo. Gli concedano quanti mesi vuole; invitato a concludere, urlerebbe: «siete un plotone d’esecuzione». In mani tartufesche il diritto alla difesa diventa perditempo. Speriamo che esca dal quadro politico: cosa dubbia; se mai accade, loderemo Dike. Gli oppositori sinora l’hanno trattato con i guanti, cappello in mano, inchini; e l’establishment gli presta sponde: Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, ex ministro degl’Interni nel gabinetto Monti, candidata al Quirinale, ora guardasigilli, raccomanda laboriose riflessioni sui dubbi sollevati dagli otto oracoli. Erano un sudario le “larghe intese”.