Nello Scavo, Sette 6/9/2013, 6 settembre 2013
SOPRAVVISSUTI GRAZIE ALLA BERGOGLIO’S LIST
Tra le tragiche conseguenze del golpe del 24 marzo 1976 in Argentina si registrò la sparizione di almeno 30mila persone. Padre Jorge Bergoglio riuscì a costruire una rete clandestina, in modo da salvaguardare i perseguitati e favorire il successo delle fughe. In realtà quasi nessuno degli appartenenti al «sistema Bergoglio» sapeva di esserne parte. Ciascuno faceva un singolo preciso favore al capo dei gesuiti argentini. Chi procurava un posto letto per qualche notte. Chi un passaggio in macchina. Chi metteva una buona parola con i funzionari consolari europei. Chi procurava i biglietti aerei o un passaggio su navi mercantili dirette in Europa. Un’organizzazione per compartimenti stagni. L’unico modo perché il rischio fosse minimo e le informazioni circolassero il meno possibile. Dal libro-inchiesta di Nello Scavo, che racconta tutto questo attraverso testimonianze, pubblichiamo un estratto dell’inedito mondiale che presenta: l’interrogatorio dell’allora cardinal Bergoglio l’8 novembre 2010, quando il futuro Pontefice venne ascoltato dai magistrati che indagavano sulla violazione dei diritti umani durante la dittatura. Furono 3 ore e 50 minuti di domande serrate. Vertevano soprattutto sul sequestro di due padri gesuiti a opera della dittatura. Alla sinistra di Bergoglio sedevano i giudici Daniel Obligado, Germán Castelli e Ricardo Farias. L’avvocato Luis Zamora, che rappresenta le vittime, bersaglia senza sconti l’allora arcivescovo.
ZAMORA: Come venne a conoscenza del sequestro dei familiari e di una religiosa nella chiesa di Santa Cruz nel dicembre del 1977?
BERGOGLIO: Dai mezzi di comunicazione. Erano un gruppo di persone che lavoravano per i diritti umani e si riunivano lì. Erano due religiose francesi e una mia conoscente, Esther Ballestrino de Careaga. [...]
Z.: Sa se la gerarchia fece una denuncia riguardo a questo caso?
B.: Non posso specificarlo, però presumo di sì, per il modo in cui si era soliti fare denuncia in questi casi, trattandosi poi di un santuario cattolico.
Z.: Ci sarebbero prove in qualche archivio centrale della Chiesa cattolica?
B.: Presumo di sì, ma non lo so.
Z.: Quell’archivio è sotto la sua autorità?
B.: L’archivio centrale della Cea (Conferenza episcopale argentina) è sotto l’autorità della Cea.
Z.: E chi presiede la Cea?
B.: Io.
Z.: Vi sarebbe modo di trovarlo?
B.: Trovarlo non lo so, cercarlo sì.
Z.: In quali circostanze incontrò per la prima volta E.B. de Careaga?
B.: Era la responsabile del laboratorio di analisi chimiche dove lavorai nel 1953-54, e si creò un forte legame di amicizia tra di noi. Era paraguaiana.
Z.: Quando venne a sapere del sequestro, fece qualcosa?
B.: Mi rattristò molto, provai a mettermi in contatto con qualche familiare, ma non riuscii. Si erano nascosti. Una delle sue figlie era stata detenuta e poi rilasciata. Mi interessai con persone che avrebbero potuto fare qualcosa per lei.
Z.: A chi si riferisce?
B.: Persone vicine che si potevano muovere, persone che lavorano nel campo dei diritti umani.
[...]
Z.: In che anno e in quali circostanze conobbe Orlando Yorio e Francisco Jalics?
B.: Potrei aver conosciuto Yorio nell’anno ’61, ’62, nel Colegio Máximo, che è la casa di studio dei gesuiti, dove hanno sede le facoltà di filosofia e di teologia. In seguito fu mio professore di teologia, sul trattato De Trinitate. Conobbi invece Jalics nel ’61, credo, nello stesso luogo. Era professore di una delle parti di teologia fondamentale, e durante i miei primi due anni fu il mio consigliere spirituale.
[...]
Z.: All’interno della Compagnia di Gesù, vi erano accuse di alcun tipo riguardo il modo in cui i padri Yorio e Jalics svolgevano le loro funzioni sacerdotali?
B.: Niente in particolare. In quell’epoca, qualsiasi sacerdote che lavorasse con le fasce più povere della società era sospettato o oggetto di accuse. Nel giugno del 1973 viaggiai a La Rioja con l’anteriore provinciale (della Compagnia) per intervenire nel caso di due gesuiti che lavoravano con i poveri nelle missioni della regione, e che erano anch’essi soggetti a questo tipo di dicerie. Era una cosa molto comune: uno che lavorava con i poveri era un comunista, e questo modo di pensare continuò anche successivamente. È qualcosa che esisteva già da anni. Però, di accuse di tipo ideologico, di appartenere a gruppi sovversivi, come si chiamavano allora, non ne ho mai ricevute da parte di persone intelligenti.
[...]
Preti che lavoravano con i poveri
Z.: Sarebbe importante che lei facesse uno sforzo per ricordarsi da dove venivano le accuse rivolte a Yorio e Jalics a cui ha accennato prima.
B.: Dagli stessi ambienti, anche se di ideologie diverse, in modo trasversale. Alcuni settori della società o del mondo della cultura che non erano d’accordo con quella scelta. Una scelta molto ben definita dalla Chiesa.
[...]
Z.: Si consultavano con lei?
B.: Si parlava nelle comunità, nei settori, in alcune parrocchie. In tutti i settori della Chiesa. E anche fuori.
Z.: Non ricorda nessun caso concreto, qualche vescovo, cardinale?
B.: No, perché era qualcosa di molto comune. Anche se cerchi di non dare importanza, non alle accuse ma al loro significato, anche se non è vero, sono già tutti convinti, è già scritto, che i preti che lavoravano con i poveri sono comunisti.
[...]
Z.: Si ricorda di essersi consultato in qualità di provinciale con padre Jalics per le accuse che lui e padre Yorio continuavano a ricevere?
B.: Sì, e non solo con loro due, ma con tutti i gesuiti che avevano fatto quella scelta sul fronte della povertà. Era normale che ci confrontassimo su queste cose e vedere come potevamo procedere.
[...]
Z.: È a conoscenza di ciò che accadde a Jalics, Yorio e a un gruppo di catechisti del Quartiere Rivadavia?
B.: In che data?
Z.: Nel maggio del 1976.
B.: Si riferisce al sequestro?
Z.: Io non posso suggerirle la risposta.
B.: Intorno al 22, 23 di maggio vi fu una retata e furono sequestrati (picchietta con il dito, nota del cancelliere).
Z.: Sa chi fu sequestrato?
B.: So che i padri Jalics e Yorio furono detenuti insieme a un gruppo di laici. So anche che alcuni furono liberati nei giorni seguenti, o così mi fu detto.
Z.: Sa se li avessero già sospesi?
B.: È quello che sentii dire, non lo so.
[...]
B.: Dipesero dall’ordine fino a che non ne uscirono. Vi fu un periodo di transizione. Successivamente […] si misero alle dipendenze del vescovo locale.
GIUDICE PRESIDENTE: E durante la transizione?
B.: Io dissi loro che potevano continuare a celebrare messa fino a che non sarebbero stati ordinati.
[...]
Z.: Durante la transizione potevano celebrare come un qualsiasi altro sacerdote?
B.: Lasciai che fossero loro a interpretare le mie parole.
[...]
G. P.: Li accompagnò, li aiutò, c’era un rapporto che si manteneva vivo con i padri Jalics e Yorio?
B.: Sì, offrii loro anche di venire a vivere nella curia provinciale, con me [...]. Già si vociferava della possibilità di una retata. Almeno fino a che non avessero incontrato un vescovo benevolo. Mi ringraziarono.
[...]
La notizia della retata
Z.: Come venne a sapere della retata?
B.: Per telefono, a mezzogiorno, mi chiamò una persona del quartiere, una che non conoscevo. Mi disse che c’era stata una retata, che avevano arrestato due sacerdoti e molti laici.
[...]
G. P.: Si ricorda cosa fece dopo aver ricevuto quella notizia?
B.: Sì, cominciai a muovermi, a parlare con dei sacerdoti che sospettavo avessero contatti con la polizia, con le Forze Armate, ci muovemmo immediatamente.
G. P.: Riuscì a ottenere informazioni diverse da quelle che le aveva dato il vicino?
B.: Mi diedero conferma della retata, ma ancora non sapevano dove li avessero portati. Più avanti si cominciò a dire che erano stati membri della Marina. Dopo due o tre giorni, o per lo meno questo è quello che mi dissero.
[...]
Z.: Come venne a sapere che era stata la Marina?
B.: Si diceva, vox populi; quelli che avevano fatto accertamenti puntavano in quella direzione.
G. P.: Questo fu motivo di cambiamento di strategia per come fu successivamente gestita la questione?
B.: Sì, infatti incontrai due volte il Comandante della Marina, Massera. La prima volta mi ascoltò e disse che avrebbe verificato. Gli spiegai che quei padri non erano coinvolti in niente di strano, e rimasi che mi avrebbe fatto sapere. Dato che non mi rispose, dopo un paio di mesi, oltre a seguire delle altre piste, chiesi di avere un secondo colloquio. Ero quasi sicuro che fossero loro a tenerli prigionieri. Il secondo incontro fu molto spiacevole, non durò neanche dieci minuti. Mi disse: «Guardi, quello che sta succedendo l’ho già spiegato a Tórtolo». Io gli risposi: «Ma mi dirà di più che a Monsignor Tórtolo, o no?». «Sì, va bene». Io gli dissi: «Guardi, Massera, io li voglio indietro vivi». Mi alzai e me ne andai.
[...]
I colloqui con Videla
Z.: Il fatto che sapessero che erano stati sequestrati dalla Marina è un dato di enorme importanza. Se potesse fare uno sforzo per ricordarsi chi la informò; e il fatto che lei considerò una notizia tanto verosimile da essere ripetuta a Massera, doveva essere insomma una fonte seria.
B.: Si dice vox populi, vox dei, non era una persona, era un unisono di voci. Forse non riuscirono neppure a identificare gli agenti che si erano identificati come un gruppo della Marina.
Z.: Non ricorda chi la chiamò per telefono, non ricorda chi le disse che era stata la Marina...
G. P.: Furono in molti.
Z.: Per questo gli sto chiedendo che ne identifichi almeno uno.
G. P.: Ricorda in che circostanze riuscì ad avere un incontro con Massera?
B.: Perché ero sicuro, mi scusi, quasi sicuro, che fosse lui, perché lo dicevano tutti. Ricordo un sacerdote gesuita che fece un buonissimo lavoro per riuscire a confermare questa ipotesi, era padre Fernando Storni.
Z.: È ancora vivo?
B.: No. È morto.
Z.: Che circostanza curiosa.
B.: Anche con Videla due volte, per lo stesso motivo. (Non ricorda le date esatte, però calcola che il primo colloquio deve essergli stato concesso due mesi dopo il sequestro). Fu molto formale, prese nota, mi disse che avrebbe verificato. Gli dissi che si vociferava che fosse stata la Marina. La seconda volta, invece, riuscii a scoprire chi era il cappellano militare che celebrava messa a casa sua, nella residenza del Comandante in capo. Chiesi a questo sacerdote di darsi per malato e che lo avrei sostituito io. Quel sabato, dopo la messa, chiesi di poter parlare con lui. Lì mi diede l’impressione che si sarebbe interessato di più e che avrebbe preso le cose più seriamente. Non fu però violento, come l’incontro con Massera.
[...]
Le telefonate al padre generale
Z.: Lasciò qualche testimonianza scritta di quei colloqui?
B.: Tenevo sempre informato il padre generale.
Z.: Per iscritto?
B.: No. A quell’epoca non esistevano né email, né fax, c’era solo il telex, quindi, per velocizzare le cose, gli telefonavo direttamente. Lo chiamavo da un telefono pubblico sulla calle Corrientes, per non usare il telefono della curia.
Z.: Dopo averlo informato per telefono, lasciava qualcosa di scritto?
B.: No. Lo chiamavo e basta.
Z.: È normale che comunicazioni di tale importanza venissero trasmesse oralmente?
B.: Sì e no. Ci sono faccende che seguono un ritmo lento, tranquillo, dove uno può preparare i memorandum attinenti. Altre, come questa che era urgente, e dove c’era un pericolo di vita per qualsiasi cosa venisse detta, che dovevano essere sbrigate velocemente.
[...]
G. P.: Signor Bergoglio, ricorda come venne a sapere che i padri Jalics e Yorio erano stati liberati? Si incontrò con loro? Quando?
B.: Mi chiamò padre Yorio direttamente. Gli dissi di non dirmi dove fosse e di non muoversi da lì. Di mandarmi una persona che mi potesse comunicare un luogo per il nostro incontro. A quel punto bisognava prendere tutte le precauzioni possibili. Ci siamo riuniti, abbiamo parlato, il problema era ottenere il passaporto, perché dovevamo farli uscire dal Paese. Il Signor Nunzio (Pio Laghi, ndr) si comportò molto bene e accettò il mio consiglio che fossero accompagnati al dipartimento di polizia. Andò il segretario della Nunziatura, con la copertura diplomatica perché non potesse succedergli niente lì dentro. Nel caso di Yorio, mi contattò altre volte per discutere del suo futuro. [...] Decidemmo che la cosa migliore sarebbe stata di mandarlo a Roma.
[...]
G. P.: Che cosa le raccontarono?
B.: Mi raccontarono tutto. Che li avevano incappucciati, immobilizzati, e dopo un certo periodo li avevano trasferiti in un altro luogo, che poteva essere una casa nella stessa zona o in prossimità dell’Esma, dove erano convinti di essere stati fino a quel punto. Erano sicuri che fosse la stessa zona perché sentivano i rumori di decollo e atterraggio degli aerei. E che li liberarono addormentati in un campo a Cañuelas.