Umberto Eco, L’Espresso 6/9/2013, 6 settembre 2013
SOSPETTATE DI CHI GIUDICA
Qualcosa del genere lo avevo scritto in una Bustina del 1995, ma non è colpa mia se a distanza di diciotto anni le cose vanno nello stesso modo, almeno in questo paese. D’altra parte in un’altra Bustina avevo scritto di quando "Repubblica", per festeggiare il suo ventennale, aveva inserito nel numero di vent’anni dopo la copia anastatica del numero di vent’anni prima. Io avevo scambiato distrattamente il secondo per il primo, l’avevo letto con grande interesse e solo alla fine, vedendo che si davano solo i programmi di due canali televisivi, mi ero insospettito. Ma per il resto le notizie di vent’anni prima erano le stesse che mi sarei aspettato vent’anni dopo, e non per colpa di "Repubblica" ma dell’Italia.
Così nel 1995 mi lamentavo di un curioso andazzo di alcuni giornali che parteggiavano per alcuni illustri accusati ma che, invece di sforzarsi di dimostrarne l’innocenza, pubblicavano articoli ambigui e allusivi, quando non deliberatamente accusatori, intesi a delegittimare i giudici.
ORA, SI NOTI, dimostrare che in un processo l’accusa è prevenuta o sleale, in sé sarebbe una bella dimostrazione di democrazia, e fosse stato possibile fare così in tanti processi messi in scena da dittature di vario colore. Ma questo si deve fare in situazioni eccezionali. Una società in cui, sempre e a priori, non solo l’accusa, ma anche il collegio giudicante siano sistematicamente delegittimati, è una società in cui qualcosa non funziona. O non funziona la giustizia o non funzionano i collegi di difesa.
Eppure questo è ciò a cui stiamo assistendo da qualche tempo. La prima mossa dell’inquisito non è di provare che le prove di accusa sono inconsistenti, ma di mostrare all’opinione pubblica che l’accusa non è immune da sospetti. Se l’inquisito riesce in questa operazione, l’andamento del processo è secondario. Perché chi decide, in processi ripresi alla televisione, è l’opinione pubblica, che sfiducia l’inquirente e tende a convincere ogni giuria che sarebbe impopolare dargli ragione.
Quindi il processo non riguarda più un dibattito tra due parti che presentano prove e controprove: riguarda, e prima ancora del processo, un duello massmediatico tra futuri imputati e futuri procuratori e membri del collegio giudicante, a cui l’inquisito contesta il diritto di giudicarlo.
SE RIESCI A DIMOSTRARE che il tuo accusatore è un adultero, ha commesso peccati, leggerezze o crimini - anche se nulla hanno a che fare con il processo - hai già vinto. E non è necessario dimostrare che il giudice abbia commesso un delitto. Basta (ed è storia) averlo fotografato mentre getta una cicca per terra (cosa che ovviamente non avrebbe dovuto fare, neppure in un momento di distrazione) ma che dico, che (come è accaduto) gira con improbabili calzini celesti, e subito il giudicante diventa giudicabile, perché si insinua che sia essere bizzarro e inaffidabile, affetto da tare che lo rendono inadatto alla sua funzione.
A quanto pare questo modo di fare, visto che vi si insiste da almeno vent’anni, funziona. E d’altra parte queste insinuazioni solleticano i peggiori istinti della persona media che, se è multata per aver parcheggiato in terza posizione, si lamenta dicendo che quel vigile non era normale, che nutriva sentimenti d’invidia verso chi aveva una Bmw, come accade di solito ai comunisti. In qualsiasi inchiesta tutti si sentono il K di Kafka, innocente di fronte una giustizia insondabilmente paranoica.
Dunque, dicevo già diciott’anni fa, ricordate, la prossima volta che vi coglieranno con le mani nel sacco, nell’istante in cui date una mazzetta al poliziotto che vi ha sorpreso mentre spaccavate il cranio di vostra nonna a colpi di scure, non preoccupatevi di lavare le tracce di sangue, o di dimostrare che a quell’ora eravate altrove, a colloquio con un cardinale.
Basta che dimostriate che chi vi ha sorpreso con le mani nel sacco (o sulla scure), dieci anni fa non ha dichiarato al fisco un panettone natalizio ricevuto in regalo da una qualche azienda (e meglio se all’amministratore delegato dell’azienda donante è sospettabile di essere stato legato un tempo da affettuosa amicizia).