Alberto Dentice, L’Espresso 6/9/2013, 6 settembre 2013
EDOARDO E PETER PAN
[Colloquio con Edoardo Bennato] –
Cantava dell’Isola che non c’è. E non ha perso il vizio Edoardo Bennato, cantautore napoletano ironico e anticonformista. Le sue canzoni, spesso ispirate al mondo delle favole, fanno parte della colonna sonora di almeno tre generazioni. E durante la serata di gala a sostegno di Emergency organizzata da Jaeger-LeCoultre alla Mostra del Cinema di Venezia, quell’isola immaginaria, dove il senso della solidarietà e il potere della fantasia hanno sempre la meglio, ha preso consistenza concreta: un reparto pediatrico nuovo di zecca, pulitissimo ed efficiente a Goderich, in Sierra Leone, uno dei paesi africani più disastrati e con il più alto tasso di mortalità infantile. Sembra una favola, appunto, invece è tutto vero. Come ha mostrato il filmato realizzato in quei luoghi da Riccardo Scamarcio con la sua piccola telecamera facendo parlare medici, operatori e infermieri dell’équipe di Gino Strada.
In quel centro ospedaliero, interamente finanziato dal marchio di alta orologeria, sono mediamente 1.300 i bambini curati ogni mese. Un sogno diventato realtà e capace di restituire il sorriso e una speranza a migliaia di piccole vittime dell’indifferenza e della logica di guerra che domina questi tempi bui. Una logica che Edoardo Bennato, protagonista del concerto che ha chiuso il gala benefico, combatte da sempre con le armi della musica: "Il Gatto e la Volpe", "Il Rock di Capitan Uncino", "Un giorno credi", "Sono solo canzonette", folgoranti mantra rock capaci di trasfigurare la favola in racconto di denuncia sociale, oggi come quarant’anni fa. Del resto il rocker napoletano non sembra molto cambiato da allora: stessi occhialetti da sole, t-shirt, giubbotto di pelle. Stesso fisico asciutto. E se non fosse per la figlia Gaia, 9 anni appena compiuti, bionda e ridenti occhi azzurri che gli trotterella accanto come una piccola Wendy con Peter Pan, diresti che il tempo, anche per lui, si è fermato.
«A esser sinceri è stata Gaia a consigliarmi cosa mettermi questa sera: "Papà, così sei più rock", mi ha detto. Io, vista l’occasione, pensavo a qualcosa di più formale. Ed è sempre a lei che faccio ascoltare in anteprima le nuove canzoni: il mio giudice prezioso e implacabile. Quest’estate l’ho portata con me a Londra a vedere il concerto dei Rolling Stones, e con mia grande soddisfazione si è divertita moltissimo. Una solida educazione rock’n’roll è il solo antidoto per arginare la valanga degli One Direction, la sua passione».
Come invecchiare bene nel rock senza stancarsi, senza ripetersi, "this is the question".
«Diventare manager di se stessi, come Mick Jagger: credo che il segreto sia questo. In ogni caso i veri eroi del rock sono quelli che non sopravvivono a se stessi, penso a Jimi Hendrix, a Jim Morrison. Non possono invecchiare né concedersi il rischio di ripetersi. Essere capaci di ripartire ogni volta da zero oppure diventare la parodia di se stessi».
Il discorso vale anche per Bob Dylan?
«Dylan è un caso a parte. Ha capito che il pubblico non si merita niente perciò in concerto non concede nulla e stravolge le sue canzoni al punto da renderle irriconoscibili. Ma lui se lo può permettere».
Un altro caso di longevità artistica sembra essere il suo: il pubblico continua a ripetere le sue canzoni come dei mantra da circa quarant’anni.
«A dire il vero la canzone più inerente ai temi affrontati in questa serata di Emergency s’intitola "È lei" e l’ho composta due anni fa. Fa così: "È lei che in questo istante sta nascendo nell’angolo più povero del mondo, che forse questo mondo cambierà. È lei, perché la povertà le dà un vantaggio, le dà più leggerezza e più coraggio…". Con tutta sincerità credo che se ci sarà una salvezza per noi e per l’umanità, arriverà dai figli del cosiddetto Terzo Mondo».
Lei è stato il primo artista italiano a coniugare impegno e temi sociali con il rock senza salire in cattedra.
«Non ho mai preteso di dare lezioni. Quando sono sul palco so che devo coinvolgere e divertire anche i bambini. Dalla prima ora il mio obiettivo è stato questo. Io dal palco li tengo sempre d’occhio: se si divertono loro vuol dire che funziona. Non mi atteggio a cupo intellettuale, faccio rock’n’roll! Per questo una certa critica faziosa mi ha spesso guardato con diffidenza».
Qualcosa da recriminare?
«Purtroppo, tutto quel che avviene in Italia anche nell’arte, nella cultura, nello spettacolo, è interpretato attraverso il filtro di queste due fazioni che si fronteggiano, destra e sinistra, i buoni e i cattivi. Non si vede una via d’uscita».
È stato sempre così?
«Quando nel 1973 uscì il mio primo album, "Non farti cadere le braccia", il direttore della Ricordi mi chiamò per dirmi che loro ce l’avevano messa tutta, ma che i miei pezzi in radio non passavano. La mia voce, così mi dissero, risultava sgraziata. Così mi diedero il ben servito. Allora presi la mia chitarra, il tamburello a pedali e mi piazzai a Roma davanti a bar Vanni, accanto alla Rai. Il direttore di "Ciao 2001" mi notò. E grazie a lui di lì a poco mi ritrovai al Festivalbar con Franco Battiato e gli altri cantautori della mia generazione. Conquistando la patente che mi era stata negata dal mondo della musica».
Ancora qualche ruggine?
«È un mondo al quale non ho mai sentito di appartenere. Sono sempre stato e rimango un outsider, fiero di esserlo».
Con il tempo anche le priorità cambiano. Quali sono le sue ?
«Oggi non abbiamo più alibi. Siamo tutti sulla stessa barca, tutti in comunicazione. Se qualcosa non funziona in Nigeria o in Egitto coinvolge anche noi. La famiglia umana adulta ha una sola enorme responsabilità ed è quella nei confronti della famiglia umana bambina. Il nostro futuro».
Gino Strada è un modello?
«Gino Strada non è un buonista, come non lo sono io. Non dice cose politicamente corrette, è un propositivo, lotta e si dà un sacco da fare. E sarebbe giusto che fosse giudicato per la meravigliosa realtà che ha messo in piedi per curare le vittime di guerra e povertà e non, come purtroppo accade, attraverso gli occhiali inservibili della vecchia politica».
Stanca, rassegnata, incivile, violenta, tradita, volgare, condannata sono alcuni dei tantissimi aggettivi usati in una canzone, "La mia città", per descrivere la sua Napoli. Nonostante questo, probabilmente è rimasto l’unico interprete napoletano che non l’ha mai lasciata.
«Qui ci sono le mie radici, i miei morti, il mio futuro. Con la mia città ho un legame profondo, mi provoca sofferenza, ma anche tanta allegria ed emozioni forti. Dipende. Napoli è una polveriera. Chiunque abbia la velleità di governare l’Italia deve prima risolvere i problemi di Napoli, non c’è via d’uscita. Parliamo di una metropoli di tre milioni di persone di cui almeno due ignorano totalmente le regole della convivenza civile».
Sempre i buoni e cattivi?
«No, è un problema di mentalità. Tra il modo di concepire il sociale che hanno a Reggio Emilia e quello che vige a Napoli restano distanze incolmabili. Non a caso Metternich sosteneva che il nostro è un Paese ingovernabile».
Eppure sul suo sito web la politica continua a essere bersaglio preferito delle sue parodie: Bersani, Napolitano, Grillo, nessuno sfugge…
«Il rock è provocazione, o se volete la continuazione della satira con altri mezzi. Deve creare tensioni, dubbi, interrogativi. Purtroppo nel campo dei comici è rimasto solo Neri Marcorè».
E Crozza?
«Non mi fa ridere, troppo schierato. Mi fa più ridere Grillo. Ha avuto il 25 per cento dei voti, un’occasione storica e adesso non sa più che pesci pigliare».
La Napoli fotografata da Roberto Saviano in "Gomorra" è cambiata in questi anni?
«Purtroppo Napoli è una città in cui lo Stato non c’è. Gran parte della sua economia è basata sull’anti-Stato. Questo la rende una polveriera che può esplodere in ogni momento».
Voglia di scappare sull’isola che non c’è?
«Niente affatto, il mio sogno semmai è quello di portare negli Usa il mio musical "Peter Pan" in versione inglese. La traduzione dei testi è pronta e così anche il demo con le canzoni. Speriamo di farcela».
Il Peter Pan di Bagnoli che conquista New York. Di sicuro, un’altra bella scommessa.