Riccardo Lenzi, L’Espresso 6/9/2013, 6 settembre 2013
STREGATI DA EINAUDI
[Colloquio con Ludovico
Einaudi] –
Un milione di dischi venduti (l’ultimo "In a Time Lapse" è uscito per Decca), i suoi 300 mila fan che si danno appuntamento su Facebook, i concerti regolarmente "sold out" (dopo il prossimo londinese del 17 settembre, inizierà un tour nell’ex Unione Sovietica), recentemente nominato Chevalier des arts et des lettres dal ministro della Cultura francese. È sempre più il momento del 58enne pianista e compositore torinese Ludovico Einaudi, che ha trovato la maniera di mostrare il suo valore, allontanandosi dai solchi tracciati dal padre, l’editore Giulio, e dal nonno, il presidente della Repubblica Luigi.
Non è facile spiegare il segreto del suo successo. Neppure, come amano alcuni critici, classificare la sua musica. C’è chi la definisce new age e chi minimalista, pop o neo romantica. «Sono etichette che mi stanno un po’ strette», spiega Einaudi a "l’Espresso": «Nessuna rappresenta quello che faccio e non mi ci identifico. Parliamo di Keith Jarrett: molti classificano la sua musica come jazz, ma poi uno se lo va a sentire in concerto e capisce che non va bene. Troppo ricco, variegato, denso di interferenze culturali e di esperienze musicali è il suo mondo».
Fino a che punto sono accettabili le contaminazioni fra i generi? «Sono inevitabili. Anche nella nostra vita ordinaria. Pensi a come ci vestiamo. Amalgamiamo abiti diversi. Oppure come mangiamo. Un giorno pranziamo con un tipo di cibo, il seguente con un altro. Tutte queste esperienze le mescoliamo e le personalizziamo attraverso il nostro gusto. È avvenuto anche nella storia della musica: è sempre stato un miscuglio di culture. Mozart andava ad ascoltare un’orchestra a cento chilometri di distanza dalla sua casa, scopriva che suonava in un certo modo e questo inevitabilmente lo condizionava. Oggi ci muoviamo e spostiamo ancora di più e aumentano di pari passo le influenze. Sta a noi trovare il modo di filtrarle e di dargli una linea, una forma, un’unità».
Einaudi ha detto, a proposito di "In a Time Lapse", il suo ultimo disco, che quando si compone un’opera la cosa più difficile è tentare di cogliere la bellezza nei dettagli del mondo, con gli stessi occhi di quando, da piccoli, si scopre tutto per la prima volta. Ha insomma tentato di raccontare il tempo, come Proust. «Non ho pensato in particolare a questo autore. Avevo un altro libro a tenermi compagnia: "Walden"di Henry David Thoreau. È la storia di uno scrittore che a un certo punto della sua vita si è staccato dalla civiltà e si è costruito una casa nei boschi per riprendere contatto con il tempo e tutto quello che gli stava attorno, ovvero il mondo e la natura. Ha incominciato ad annotare tutto: dai suoni del bosco ai movimenti delle stagioni. È un po’ il volere entrare in contatto con una dimensione della vita che sfuma man mano che passa il tempo. Quella cosa che da bambini sentiamo intensamente perché viviamo in quella dimensione. Un’esperienza sensoriale che poi viene sopraffatta dagli eventi successivi e dalla consuetudine».
Pierre Boulez, campione del cosiddetto progresso musicale, relega il ritorno di compositori come Rachmaninov, Massenet e Korngold in una sorta di "operazione nostalgia". «Io penso alla musica come a un linguaggio dei sensi, quindi in qualche modo trovo interessante lavorare in rapporto con la memoria, con la nostra storia e cultura. È importante dare degli elementi all’ascoltatore, per introdurlo dentro un universo che possa essere evocativo, seppure enigmatico. Se tutto è completamente sconosciuto diventa impossibile entrarci. L’artista deve saper creare una sorta di magnetismo, una situazione, un’atmosfera in cui poter essere stregati e attratti. In questo senso è determinante partire da un linguaggio che tutti possano comprendere».
Infatti possiamo ascoltare la sua musica ovunque. Nella Notte della taranta a Melpignano, alla Scala, all’iTunes festival accanto a rinomati gruppi rock, a Buckingham Palace durante il "queen’s speech", il tradizionale discorso natalizio della regina. Una musica trasversale. «Pare di sì, anche se non è stato quello il mio intento. Piuttosto, ho voluto parlare con le persone, allontanare quel senso di antico e imbalsamato che la musica classica aveva fino a qualche decennio fa. Era diventata una musica per un pubblico di vecchi».
Nelle sue composizioni Einaudi suona soprattutto il pianoforte, eppure si avverte che non ha mai pensato la musica nei termini tipici di un pianista. «Per me il pianoforte è uno strumento di riflessione e di espressione del mondo interiore. Non mi è mai interessato dal punto di vista prettamente virtuosistico, tant’è vero che mi annoio quando ascolto Rachmaninov. Il mio obiettivo è esclusivamente quello di creare un suono personale, di comunicare le cose che mi interessano».
Inoltre la sua è quasi sempre musica strumentale, forse perché lo intriga l’idea che non ci siano parole a distrarre l’ascoltatore. «Non è che non amo le canzoni e i cantanti. Il pianoforte è un po’ la mia voce e trovo affascinante che ognuno possa avere, grazie alla maggiore indeterminatezza della musica strumentale, il proprio angolo di lettura e seguire più facilmente il proprio percorso immaginativo».
Einaudi lo fa utilizzando anche i computer e l’elettronica. Quanto hanno influenzato la percezione dei tradizionali valori estetici? «Negli ultimi trent’anni l’innovazione tecnologica ha cambiato il modo di ascoltare la musica, ha creato nuove sonorità e ricchezze timbriche. Colori, che hanno modificato il modo di comporre e i gusti del pubblico. Un universo in costante evoluzione, dove però rimane fondamentale il dialogo che la tecnologia tesse con gli strumenti acustici, il cui fascino è rimasto intatto».
Per verificare quanto dice Einaudi, basta partecipare a uno dei suoi concerti. In uno, avvenuto alla Royal Albert Hall nel 2010, che si può apprezzare su YouTube, si nota il sapiente uso delle luci e il teatrale ingresso degli esecutori. «È importante l’idea di creare un progetto e pensare a un concerto in termini di spettacolo. Vuol dire costruire la magia di un evento con i suoi tempi. Un’attenzione che ho perfezionato con la mia esperienza negli anni, una vera e propria coreografia in cui ogni interprete sa quando entrare, come posizionarsi, in un gioco di luci che ha lo scopo di esaltare al massimo grado le atmosfere musicali».
Così operando, quasi sembra attualizzarsi l’utopia del compositore Alexander Scriabin, ovvero il "voluttuoso legame" fra musica, colori e profumi. «La tendenza è quella, non vi è dubbio. Basta pensare alle proiezioni dei Pink Floyd, che portarono alla massima potenza visionaria questi concetti. Alle operazioni di gruppi più recenti come i Radiohead, alle grande istallazioni artistiche dei Massive Attack o più modestamente a quello che accade nelle discoteche».
Senza dimenticare il connubio fra musica e natura, come quando al Festival delle Dolomiti Einaudi suonò davanti alle Pale di San Martino. «Attenzione alle letture banali. Quel che trovo profondo, interessante è vedere come la natura nella storia, in letteratura come in pittura e nelle arti in generale, sia stata sempre un punto di partenza per raccontare i movimenti dell’anima. Come le onde di Virginia Woolf (proprio con l’album "Le onde" ispirato al romanzo della scrittrice britannica, Einaudi raggiunse nel 1996 il successo internazionale, ndr.) erano le onde dei movimenti dello spirito nella sua natura altalenante. Così il movimento di un fiume racconta la vita, come ci ha insegnato Eraclito».