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 2013  settembre 06 Venerdì calendario

CHE STRAZIO DI TV

[Colloquio con Carlo Freccero] –
All’improvviso Carlo Freccero sgrana gli occhi. Come un visionario, un pazzo, un bambino di 66 anni che afferra l’idea balenatagli in testa: «Sono felice!», urla seduto in un caffè romano di molta tendenza, con la gente che si gira a guardare stranita. «Sono strafelice che la Rai, dal 5 agosto, il giorno del mio compleanno, mi abbia messo in pensione!». Certo non lo entusiasma, aggiunge subito dopo, l’addio a Rai4, il canale che ha cresciuto dal nulla fino a generare ascolti e qualità di massimo rispetto, ma ancora più forte è il desiderio di cancellare il lutto per i troppi anni trascorsi nel limbo, «al secondo piano di viale Mazzini, in quelle stanze dove gli scherani di Silvio Berlusconi relegavano i dissenzienti». Fosse stato per loro, alza ancora di più la voce,«mi avrebbero pure gasato, disintegrato». E anche quando al vertice della tv pubblica è salito Luigi Gubitosi, che lui include nella categoria dei «gentiluomini», la situazione è rimasta delicata. «Per la prima volta dal 2002 un direttore generale si è degnato di ricevermi, e mi ha proposto di scrivere programmi per l’Expo 2015».Offerta «interessante», riconosce Freccero: «Il cibo, oggi, è con la moda e la comunicazione al centro del pianeta. Però gli ho precisato che, la prima cosa da fare, sarebbe stata un’inchiesta a tutto campo sulle multinazionali dell’alimentazione, e sui loro codici etico-industriali». Ipotesi che, a sentire l’ex direttore di Rai4 - oltre che di Raidue, Italia1 e della francese La Cinq - «Gubitosi ha accolto con una sequenza di "Ah... Mh...Sì..."». Dopodiché non l’ho più sentito. «D’altronde», allarga le braccia, «non sarò mai un pittore di cartoline turistiche». E forse per questo, per la sua insaziabile fame di critica, inizia a commentare la prossima stagione televisiva con un certificato di pessima salute: «La tv generalista», dice, «è in agonia irreversibile. Lenta, per il momento. Frenata in Italia dalla crisi della pubblicità, e dal fatto che siamo una nazione vecchia. Ma comunque irreversibile. Uno spettacolo straziante di cui avremo, il prossimo inverno, reiterata conferma». L’ennesima sequenza, insomma, di «trasmissioni inutili, in attesa che la rivoluzione tecno-culturale spazzi via tutto e tutti».
Ciò non toglie che qualche novità ci sia, in questo settembre. Ad esempio il fatto che lo speciale dedicato al tour negli stadi di Lorenzo Jovanotti sia andato in onda su Raiuno, santuario del mainstream. E che su Twitter sia partita una videocampagna per sostenerlo con Fiorello in prima fila, presente tra l’altro anche nello show. Non è la crossmedialità che lei sempre auspica?
«Magari! Quello con Fiorello, in particolare, è un affettuoso scambio di favori. Rosario, nel "#ilpiùgrandespettacolodopoilweekend", sempre targato Raiuno, ha fatto il pieno di ascolti grazie a una strepitosa ospitata dell’amico Lorenzo. E adesso ha ricambiato la cortesia. Operazione perfetta, televisivamente. Nel senso che lo speciale di Jovanotti, con queste attenzioni, ha acquisito calore e continuità narrativa con il programma di Fiorello. Ma per favore, non abusiamo della parola "nuovo". È il potere catodico, invece, che si rinnova usando il fascino del già visto».
Proprio lei, Freccero, fa questi discorsi, che in ogni occasione esalta Fabio Fazio e la tv che produce? Non sono anche il Festival di Sanremo condotto da Fazio, che vedremo a febbraio su Raiuno, e il suo "Che tempo che fa "su Raitre, costanti osanna alla memoria e al politically correct?
«Ma certo. Infatti Fabio Fazio, oggi, rappresenta il massimo della potenza televisiva. È la sintesi tra il vecchio-giovane Enrico Letta e il disinibito trasversalismo di Matteo Renzi. Un canone strepitoso, perché Fazio per primo ha intuito cosa sarebbero diventati gli italiani: un popolo che ha per riferimento la tv degli anni Ottanta. Goldrake, le canzonette alla "Anima mia", Claudio Baglioni... Quelle cose lì. Fabio è un fenomeno nel fabbricare ritornelli, reiterazioni visive e sonore capaci di sdoganare anche i contenuti più indigeribili».
Per cui lei non si scompone, in questo trionfo di "indigeribile" e déjà vu, se a "Domenica in" sta tornando Mara Venier, e Canale 5 ribatte con le rodate telelacrime di Barbara D’Urso.
«E cosa dovrebbero fare, i dirigenti di Rai e Mediaset? Cacciano alla disperata il pubblico della provincia: sia in senso geografico che in quello intellettuale. Tanto ogni domenica è la stessa storia. Su Sky trionfano il calcio e le repliche di "X Factor" e "Masterchef". Per cui non resta che gettarsi sugli avanzi: milioni di anziani, spesso poco istruiti, affidati alle badanti Venier e D’Urso. Brave professioniste, attenzione. Donne molto generose. Fisarmoniche dei sentimenti che recitano con tutto, pur di conquistare lo share: con gli occhi, con le mani, a volte pure con le tette».
Questo però - l’ha dichiarato lei stesso - è la logica conseguenza di una tv orfana di bussole e idee. Non è più sorprendente, piuttosto, l’inversione a "u" con cui Luca Telese, già firma del berlusconide "il Giornale" e poi del "Fatto quotidiano", è passato dalla sinistra chic de La7 a Mediaset, dove condurrà "Matrix"?
«Sorprendente? Per niente. Anzi: tutto mi pare molto naturale. È il classico prodotto della tv delle larghe intese; di quella carnalità perversa che lega destra e sinistra, e che porta Mediaset a contenere nel suo ventre sia le piazze ululanti di Paolo Del Debbio, già ideologo di Forza Italia, sia il talk show di Telese. Tantopiù che Luca ha una caratteristica spettacolare: è completamente schiavo dei tempi, di Twitter, del costante confronto con l’opinione pubblica. Qualità non appariscente, ma che gli consente di ascoltare il Paese».
Più scivoloso, intanto, è stato quest’estate per Nicola Porro l’avvio su Raidue di "Virus", programma di approfondimento che avrebbe dovuto rianimare la seconda rete. Perché non sta decollando, la formula all inclusive che abbina talk, ammiccamento alla Rete e interviste bignardesche?
«Perché il problema non è la formula, purtroppo. Il problema è lui: Porro. Ha tutto: è bello, intelligente, mondano, conosce l’economia, ha un’agenda ottima. Ma a differenza di Telese non ha fame di successo. Gli manca il carico di tracotanza, e determinazione che in tv è indispensabile. Se ci pensate, sfogliando i palinsesti, sono tutti così i conduttori che funzionano. Corrado Formigli, per citarne uno, combatte come un pazzo per dimostrare che è più bravo del maestro Santoro. E Michele stesso, ancora oggi, si dà un gran da fare per imporsi come burattinaio politico. Nicola Porro no, è un’altra storia: appartiene alla categoria di quelli che vanno in vacanza a Saint Tropez, e che non sentono dal profondo la pulsione animale».
Beh, visto che lo ha appena citato lei, parliamo anche del suo amico Santoro, e delle scelte che gli toccherà fare. Svaporata, con l’ingresso a La7, la stagione gloriosa dell’indipendenza da tutto e tutti, e ancora fresca l’impressione per quanto successo a "Servizio pubblico", dove l’ospite Berlusconi lo ha superato per aggressività e brillantezza, va capito dove andrà a parare.
«Per quanto ne so io, Santoro vorrebbe evolversi in una specie di Francesco Rosi. Un narratore quasi cinematografico delle vicende italiane. E credo pure, però, che abbia la consapevolezza di essere alla fine di un ciclo. Quello che doveva dare, lo ha dato: gli tocca solo attendere che sulla sua storia, e su quella del nemico Berlusconi, cali il sipario. In parallelo. Un epilogo che racconterà dal video con parole generose, quasi romantiche».
Tra l’altro, va seguito anche come si svilupperà il rapporto tra i purosangue della scuderia La7, da Enrico Mentana a Formigli, da Lilli Gruber ad appunto Santoro, e il nuovo proprietario Urbano Cairo. Un imprenditore che lei dovrebbe conoscere bene, dato che avete lavorato entrambi per il Cavaliere.
«Come no... Di lui ho un ricordo indelebile. Dirigevo Italia1, nei primi anni Novanta, e un giorno ero nel suo ufficio milanese di via Rovati. Più lo osservavo, e più mi accorgevo di quanto si sforzasse di imitare Berlusconi: il modo in cui sorrideva, in cui si atteggiava a dare mano, persino come camminava. Oggi, infatti, è una copia in sedicesimo del Cavaliere: intelligente, svelto, ma pur sempre un’imitazione in scala ridotta. Il Torino, insomma, non sarà mai la Juve, e La7 non potrà mai avere grandi obiettivi. Si accontenterà di mangiare le briciole del mercato investendo sul popolare. Non a caso, per la fascia del pomeriggio, è stata scelta Rita Dalla Chiesa. E sempre non a caso, quando Gad Lerner ha visto infrangere il giansenismo della rete all news, ha cambiato di corsa aria».
Comunque la si pensi, un dato è oggettivo: il 18 agosto Real Time, la tv maestrina che anche quest’anno insegnerà agli italiani a vestirsi, fare bricolage o comprare casa, ha superato proprio La7 in ascolti (2,2 contro 2,1% di share). E lo stesso era accaduto dieci giorni prima. Cosa significa? Che noi italiani abbiamo sempre bisogno di essere tenuti per mano?
«Peggio! È il trionfo della manualistica, e della progressiva americanizzazione del Paese. Perché anche se non lo ammetterebbe mai, il pubblico vuole essere plasmato. Cerca un lifting della quotidianità, ed è grato quando lo trova in tv. Per questo la cuciniera Benedetta Parodi farà benissimo, in questa stagione, su Real Time. Lei forse non ne è consapevole, ma è il maestro Manzi delle pentole, un personaggio in questo senso credibile».
Lo dica: lei è malato di trash, di perversissima attrazione per il pop televisivo. Non per niente ripete ovunque che Maria De Filippi è il suo Censis, il suo termometro dell’Italia 2013.
«Verissimo: sono un grande ammiratore di Maria. Perché lei capisce, annusa. E ha intuito che è il momento di inserire in tv figure esemplari, modelli positivi per chi guarda da casa. Lo ha fatto, ad esempio, portando don Luigi Ciotti ad "Amici", e continuerà in questa direzione».
Beh, madame De Filippi è anche la titolare di "C’è posta per te" e "Uomini e donne". Insomma, un’efferata ideologa della tv del dolore e dell’amore tronista.
«Diciamolo meglio: Maria è il simbolo della televisione commerciale. Una signora che non teme di sporcarsi le mani. Ha una moralità che inizia e finisce dentro al video: le eventuali conseguenze di quello che mostra, non la riguardano. Lei tira dritto da regina, e sbancherà alla grande i prossimi sabato sera».
Il che non toglie che anche i suoi format, per quanto aggiornati, siano sempre gli stessi da anni e anni. Perché, a suo avviso, Mediaset stenta tanto a rigenerarsi?
«Bisogna alzare gli occhi fino a Piersilvio Berlusconi, per capire quale sia l’ostacolo. Il fatto è che lui ha un atteggiamento televisivamente passivo. Il padre amava dal profondo quello che poi andava in onda: lo svezzava, ci si divertiva. Tirava fino alle tre di notte con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia discutendo sulle battute più forti. Giuro che per scegliere Gigi Sabani, come conduttore del mitico "Ok, il prezzo è giusto", abbiamo fatto 21 ore di riunioni. Piersilvio invece è distaccato, non è mai entrato con forza nel merito del prodotto. E così ha prevalso la noia, invece dell’alta gradazione alcolica indispensabile a una rete commerciale carica di pubblicità».
Uno che i piedi nel piatto li sta mettendo, a quanto pare, è il direttore di Raitre Andrea Vianello. Qui il ricambio generazionale è in atto, a partire dal "Gazebo" di Diego "Zoro" Bianchi fino alla nuova stagione di "Agorà". E il prossimo novembre tocca a "Masterpiece", format dedicato agli aspiranti scrittori: la attira, come sfida?
«Per niente. Anzi: aggiungo che è una prospettiva sconcertante. Non voglio immaginare un esperimento in vitro per fabbricare tanti Baricchini. Il destino di questo show, se ci capisco un po’ di tv, sarà finire nel palinsesto di Rai5, destinato a pochi occhi e anche un po’ miopi».
Addirittura. E perché tanta diffidenza? Non crede alle ibridazioni tra cultura e tv, come l’evento natalizio Rai in cui Roberto Benigni parlerà dei "Dieci comandamenti"?
«Dipende. L’operazione di Benigni, ad esempio, è giusta e incasserà ascolti. Anche se onestamente non ne posso più, di questo Roberto in versione istituzionale. A me manca quando faceva Johnny Stecchino e si rideva di gusto. Ora è diventato un pontefice, il Giorgio Napolitano della tv. E cosa s’inventerà mai, dopo avere commentato Dante, la Costituzione italiana e le tavole di Mosè? Gli resta solo il Talmud».
Quanta crudeltà, Freccero. Non è che, dietro alla sua aria distaccata, e alle sue dichiarazioni di serenità per la vita da neopensionato, cova un feroce risentimento verso viale Mazzini?
«Al contrario: amo a prescindere, chi fa televisione. So che è gente malata, flagellata dal cancro della lucina rossa delle telecamere, che quando s’illumina devasta uomini e menti. Io sono complice di questi personaggi. Sono un disturbato che quando parla di una trasmissione, pensa subito a come costruire lo share. Però... (e qui si ferma di colpo, con un sorriso in bilico tra euforia e tristezza)».
Però cosa, Freccero? Non faccia quello che si tiene.
«Però odio le ipocrisie. E quindi anche il modo in cui i consiglieri d’amministrazione Pd, in Rai, hanno tramato come la vecchia Dc, tessendo con il Pdl le larghe intese di cui parlavo prima, e trascurando invece lo sviluppo dei prodotti. Anche da qui, è partita l’agonia della tv pubblica. Dall’incapacità complessiva di alimentare nuovi immaginari. Tant’è che la stessa fiction, in Rai, è ferma a modelli antiquati. Siamo ancora all’agrodolce di "Provaci ancora prof", o all’ennesima tappa de "Il medico in famiglia". E allora, domando io, perché non chiedere a un maestro come Bernardo Bertolucci di realizzare una grande fiction, invece di insistere a girare piccoli film? Ci vorrebbe grinta, entusiasmo, e soprattutto tanto talento».
Tutte qualità che Sky ha messo in campo, quando ha proposto il "Romanzo criminale" sulla banda della Magliana.
«Vero. Poi però ha subito mollato, e ha concentrato le attenzioni su reality come "Masterchef", che anche quest’anno sarà basato sull’umiliazione dei concorrenti. Roba che se andasse in onda in diretta, scivolerebbe subito in rissa. È forse questo, che ci dovrebbe piacere?».
Lo chiedo a lei: esiste in Italia un personaggio, o un programma, sul quale è disposto a puntare senza riserve per la prossima stagione?
«A parte Paolo Bonolis, che è un fuoriclasse indiscutibile, e Milena Gabanelli, che vedrei benissimo nei palinsesti Mediaset a portare un po’ di vita e polemiche, faccio il nome di una giovane giornalista: si chiama Mia Ceran, ed è l’inviata politica di Telese a "In onda". Quando sono andato ospite, ho preteso dal conduttore che fosse fatta sedere in studio accanto a me. È preparata, seria. Le manca soltanto di atteggiarsi da prima della classe, come fece a suo tempo Lilli Gruber».
Per il resto, giura Freccero, «prepariamoci in tv a lunghi mesi di calma piatta». Anche i telegiornali, dice, sono diventati «un prodotto stanco, inattuale», tant’è che li cancellerebbe dalle tv commerciali. E dopo aver lodato la tenuta di "Striscia la notizia" e "Le iene", «clamorosi esempi di tv antegrillina», scaglia il suo ultimo sasso: «Dato che ho un po’ di tempo libero, da pensionato, vorrei intervistare di persona Silvio Berlusconi. Ci immaginate, io e lui, faccia a faccia, a ricordare e raccontare tante cose? Sorprese e share, di certo, non mancherebbero».