Giuseppe De Bellis, Studio 7-8/2013, 5 settembre 2013
BREAK POINT
Time. Il tennis si rialza dalla sua sedia. Gioco. Mostra le palle nuove. Serve. È un altro set che comincia. Perché questo è uno sport che ha oscillato tra il successo e la disfatta, tra la possibilità di entrare nel futuro e l’incubo di restare agganciato alla nostalgia. A ogni transizione, in ciascuna era da passaggio di consegne c’era sempre qualcuno pronto a dire: non ce la farà, stavolta no. Troppo forti i concorrenti. Perché il destino globale di uno sport lo decide un agglomerato di fattori identici: denaro, pubblico, sponsor, tv, talento, rivalità, tecnologia. C’è stato un tempo, o più tempi, in cui c’era sempre qualcosa che veniva meno: un elemento a turno che non faceva chiudere l’equazione a zero. Oggi li metti come vuoi e ci sono tutti. E allora falla quest’equazione e troverai sempre lo stesso risultato. Perché il torneo di Wimbledon di quest’anno è stato il più ricco della storia. Un montepremi da 35 milioni di euro, aumentato del 40 per cento rispetto all’anno scorso. I soldi non sono mai un dettaglio. No, sono la variabile costante che serve a tenere unite tutte le altre. Per tanti anni sui montepremi dei quattro appuntamenti del Grande Slam e degli altri più importanti tornei dell’Atp c’è stato troppo pudore. Come se il tennis dovesse moralizzare gli altri sport, come se la nobiltà nella quale era nato e voleva crescere lo obbligasse a sfuggire alla logica dello sportivo ostentatamente milionario. I giocatori hanno spaccato le ganasce dell’eccesso d’etica. Hanno detto al circo: pagate di più e ci divertiremo di più, se ci divertiremo di più sarete voi a guadagnare di più. Il liberalismo ha funzionato, così gli organizzatori degli Slam hanno cominciato a rivedere i montepremi. Ha cominciato l’Australian Open, il primo a superare la barriera dei 30 milioni di dollari. Poi, a ruota l’annuncio degli organizzatori degli Us Open (arrivati fino ai 29,5 milioni di dollari) e del Roland Garros che quest’anno ha distribuito 28,7 milioni di dollari. Mancava Wimbledon e Wimbledon è arrivato. Perché senza non sarebbe stato lo stesso. Ora, se chiedi in giro nel mondo del tennis, ti diranno che il passo in avanti dei montepremi degli Slam vale quello che vale. Vero nella sostanza, eppure nella forma è essenziale. Perché regala la certezza: il tennis c’è. Lì, col suo posto nel mondo, dove i soldi la differenza la fanno eccome. Perché sono un segnale, perché sono la campanella che suona l’inizio di una nuova ora. Perché sono le palline nuove con cui ricominciare a giocare. Il tennis le mostra ai suoi avversari. È uno sport che ha ritrovato la sua dimensione, che ha ritrovato il suo spirito, che ha ritrovato la sua gente. Anche qui, sentirete un sacco di “non è vero”, di “ma dai”, di “fino a un certo punto”. Invece è vero: il tennis ha avuto paura di soffrire per la rimonta del golf. Perché quando il golf è uscito dalla ultranicchia dello snob da club house avanti con gli anni, è andato a bussare alla porta dell’unico sport in cui poteva trovare lo stesso grado di nobiltà o di alta borghesia: il tennis. C’era un incrocio di sponsor e una sovrapposizione di mercato. I personaggi del golf diventavano popolari in maniera inversamente proporzionale a quelli del tennis. Tiger Woods sbancava più di qualunque numero uno della racchetta. Le televisioni del mondo, in particolare in Italia, hanno cominciato a comprare i diritti di trasmissione dei tornei Open di golf e a lasciare quelli del tennis.
Ecco, il processo s’è invertito: ora il golf arretra e il tennis si riprende se stesso. Vale per la concorrenza sulle aziende che lo foraggiano e che spesso appartengono al mondo del lusso che oggi è l’unica certezza della sponsorizzazione globale. Vale per la popolarità dei giocatori. Perché gli ultimi anni hanno regalato al tennis un gruppo di campioni che ha alimentato la sua bellezza. Lo sport entra in crisi quando si esaurisce una rivalità. Guarda il ciclismo, azzoppato dall’assenza di sfide epiche prima ancora che dal doping. Il tennis ha rischiato tante volte, sì. Ha rischiato dopo la fine di McEnroe-Borg, a metà degli anni ’80, poi alla fine di Becker-Edberg, alla fine degli anni Novanta, poi alla fine di Agassi-Sampras. Federer-Nadal ha tenuto in vita il senso della sfida, l’uno contro uno che divide il pubblico in tifosi, ma che alimenta il senso stesso dell’impresa sportiva. Però non bastava. Non a un tennis che sembrava aver perso troppo. Perché è vero che aveva scoperto Federer: troppo bello, troppo forte, troppo di classe, troppo elegante, troppo preciso, troppo tutto, compreso troppo tennis per chiunque. Sì, Roger non è un caso. Forse è la base, forse è lui il fattore talento che aiuta a chiudere a zero la nostra equazione. Va detto, scritto, letto. Va ricordato usando le parole di David Foster Wallace: «Federer appartiene a una categoria che si potrebbe chiamare geni, mutanti o incarnazioni divine. Non è mai in affanno o sbilanciato. La palla che si avvicina rimane sospesa, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe. I suoi movimenti sono sinuosi, più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Wayne Gretzky sembra essere al tempo stesso meno solido e più solido degli uomini che affronta. Specialmente nel completo bianco che Wimbledon ancora ama imporre ai partecipanti, Federer appare quello che forse (secondo me) è: una creatura dal corpo fatto sia di carne sia, in un modo o nell’ altro, di luce. Questa storia della palla che con spirito collaborativo rimane sospesa lì, rallentando, come se fosse suscettibile al volere dell’ elvetico: la metafisica sta qui. Qui e nel seguente aneddoto. Dopo la semifinale del 7 luglio in cui Federer ha distrutto Jonas Bjorkman – non semplicemente battuto, distrutto – e subito prima della rituale conferenza stampa postpartita in cui Bjorkman, che è amico di Federer, dice di essere contento di “aver avuto un posto in prima fila” per vedere lo svizzero “giocare il tennis più vicino alla perfezione che si possa immaginare”, Federer e Bjorkman chiacchierano e scherzano fra di loro, e lo svedese gli chiede se la palla quel giorno per lui era più grande del solito, visto come aveva giocato, e Federer gli conferma che “era grande quanto una palla da bowling o da basket”. Per Federer era solo un modo modesto e scherzoso di consolare Bjorkman, per confermargli che anche lui era sorpreso dalla qualità del gioco espresso quel giorno; ma è anche una battuta rivelatrice di quello che è il tennis per lui. Immaginate di essere una persona con riflessi, coordinazione e velocità soprannaturali, e di giocare a tennis ad alti livelli. Giocando, non vi sembrerà di possedere dei riflessi e una velocità fuori dal comune; vi sembrerà invece che la palla sia grande, che si muova lentamente e che avete tutto il tempo che volete per colpirla. In altre parole, non proverete niente di simile alla velocità e all’abilità (empiricamente reali) che vi attribuirà il pubblico dal vivo, guardando le palline muoversi a una velocità tale da diventare indistinte masse sibilanti. La velocità è solo un elemento».
Ecco, Federer. Solo che non poteva bastare. Allora Nadal. Solo che neanche lui, con Roger, poteva bastare. Questa nuova era del tennis ha regalato una rivalità molteplice e che si sovrappone. A quei due si sono aggiunti Novak Djokovic e Andy Murray. Il tennis vive in un momento in cui la sua capacità di esprimere classe è ai massimi livelli. Raramente una generazione ha avuto tanti campioni tutti insieme. Raramente il successo di uno è stato immediatamente raccolto da altri tre in grado di spartirselo. Succede adesso, il tennis se lo gode. Funziona. Perché la rivalità incide sul pubblico che trascina la tv, che trascina gli sponsor, che trascina il denaro, che spinge la tecnologia, che aiuta il talento, che alimenta la qualità. È l’equazione che torna: vedi che fa zero?
Il tennis c’è. Semplicemente, banalmente, evidentemente. Vive allo stesso tempo un’età dell’oro e un’età dorata. I concetti sono complementari e non necessariamente sovrapposti. Perché uno ha a che fare con il professionismo, con la competizione, con i campioni. L’altro, invece ha a che fare con gli appassionati, con la base, con la platea, col pubblico. In un momento di crisi per tutti gli sport, il tennis è in controtendenza. Non vale solo per gli Slam, come qualcuno potrebbe pensare. Prendi gli Internazionali di Roma: anche per il torneo del Foro Italico quello del 2013 è stato l’anno con il montepremi più alto della storia, ma è stato pure quello con il maggior numero di spettatori (168 mila) e quello con il maggior incremento di incassi che rispetto al 2012 sono aumentati del 25 per cento arrivando a sei milioni e mezzo di euro. C’è che la gente ha riscoperto il tennis, punto. Il suo lato sportivo, il suo lato tecnico, il suo lato glamour. Serve tutto, funziona tutto. Perché è un sistema che si autonutre. Il successo porta gli sponsor che permettono investimenti, che permettono di sviluppare le ambizioni, che permettono di migliorare la qualità, che permette di avere giocatori più forti. È un’altra equazione a somma zero.
Se la trascini in giù, questa ti porta dall’età dell’oro all’età dorata. Che poi è quella che mescola l’alto e il basso, che porta il fenomeno dei campioni dentro i circoli, cioè alla base, cioè alla radice, cioè laddove un movimento si conta. Perché è soprattutto lì che soffriva il tennis. La tv ti raccontava un mondo che poi nella realtà era inesistente, perché i club appartenevano a un’altra era geologica. Troppo sdraiati sulla nostalgia. L’età media dei soci dei circoli era aumentata oltre il limite tollerabile. Ciò significava un’altra ovvietà che forse vale la pena di spiegare: non avrebbero avuto un domani e senza circoli era a rischio lo stesso domani del tennis. Nel 2001, gli iscritti alla Federtennis erano 129.797. In undici anni sono diventati 288.045. Si parla d’Italia, adesso. Ecco: ai circoli mancava un’idea di futuro. È arrivata, quasi come istinto di sopravvivenza, utilizzando le più elementari leve del marketing: vuoi giovani? Fagli una proposta calibrata sulle loro esigenze e sul loro portafoglio. È successo. Succede. Oggi i numeri raccontano che i club affiliati alla Fit sono 3.222, abbastanza per dire che qualcosa è cambiato. Molti dei circoli hanno offerte che permettono l’ingresso agevolato agli under 40, under 35 e under 30. Sono i genitori dei bambini che poi finiscono nelle scuole tennis o nei centri estivi della Federazione: nel 2012 sono stati più di 3500 i ragazzini che hanno frequentato i camp nelle località turistiche.
Il futuro bisognava andarselo a prendere. E bisognava farlo adesso che con la generazione dei campioni globali c’è anche una generazione di talenti italiani. Anche qui siamo di fronte a uno dei momenti migliori della nostra storia. Fabio Fognini nei primi 25 del mondo, Andreas Seppi nei primi 40. Poi le donne: Sara Errani nella top ten, Roberta Vinci subito dietro, poi la Schiavone, la Pennetta, la Knapp, la predestinata Camila Giorgi che vuole sbocciare. C’è un’idea, c’è un progetto. C’è chi segue. Perché a livello juniores l’Italia ha ripreso a contare e quindi a sperare di costruirsi un’eredità per domani. L’anno scorso, Gianluigi Quinzi (fresco vincitore di Wimbledon) e Filippo Baldi hanno vinto la Coppa Davis Junior. Quest’anno il torneo dell’Avvenire, il più importante trofeo Under 16 d’Europa che si disputa al circolo Ambrosiano di Milano, l’ha vinto Andrea Pellegrino. C’è materiale, sì. C’è speranza, pure. Donne e uomini. Occhio che questo è fondamentale. Perché nella rinascita e conferma del tennis globale e italiano c’è un aspetto che ha cambiato le regole del gioco rispetto alle altre ere d’oro di questo sport. Ecco: prima maschi e femmine erano due cose diverse, forse pure due sport diversi, per velocità, per interesse, per capacità tecniche. Quando la Navratilova e la Evert si scannavano ogni anno per il titolo di Wimbledon, la partita era intrigante sotto molti punti di vista, ma poco sotto quello tecnico. La velocità ha aiutato: ha spinto gli uomini a guardarsi interi tornei femminili perché il gap tra le capacità tecniche e atletiche tra uomini e donne si è annullato. Serena Williams che serve a duecento chilometri l’ora non è un caso.
Volete un sistema? Eccolo. Perché la rinascita ha paletti fissi, a livello internazionale e anche a livello italiano. Per quello che riguarda noi, c’è il miglioramento delle prestazioni tecniche, la strategia della Federazione, la comunicazione, la visibilità. Diciamocelo, dai: il tennis era sparito. La nascita del chiacchierato canale Supertennis ha ribaltato il tavolo. Oggi su ciascun televisore di ciascuna casa italiana hai un canale che gratis manda in onda tennis 24 ore su 24. Non succede neanche col calcio. I numeri raccontano un fenomeno che vale più di quanto uno si possa immaginare. Quando Supertennis è nato, alla fine del 2008, contava in media tra 120mila e 130mila contatti quotidiani. A maggio 2013, in coincidenza con gli Internazionali di Roma, la media è diventata di 743 mila contatti. La curva sale, sale, sale e spinge un mondo che ha ripreso a interessare moltissimo anche alle piattaforme televisive internazionali. Sky detiene in Italia i diritti dei tornei dello Slam, o direttamente o attraverso Eurosport. Suoi sono anche i diritti della trasmissione del torneo maschile di Roma (quello femminile è di Supertennis). Ecco, nell’ultimo anno i dati sono schizzati. La finale del 2012, tra Nadal e Djokovic fu vista sul satellite da 165 mila spettatori, quest’anno quella tra Nadal e Federer da 226 mila. Più 27 per cento. Vuol dire qualcosa, ovvio. Vuol dire che vale la pena crederci. Così, quest’anno, come lo scorso, le risorse di Skysport su Wimbledon sono state considerevoli. Cinquanta persone al lavoro per 15 giorni, la diretta praticamente continua su tutto il torneo, la divisione dello schermo in mosaico interattivo dove lo spettatore poteva scegliere che match guardare. Per capirci: è lo schema applicato al campionato di calcio e alle Olimpiadi di Londra. Eppure quando Sky decise di non affidare più le telecronache dei tornei, Wimbledon compreso, alla straordinaria coppia Rino Tommasi-Gianni Clerici, tutti, ma proprio tutti, cominciarono a ripetere che quello era il segno della fine del tennis, televisivo e no. Il futuro ha smentito i profeti di sventura, non ci ha riportato le chiacchierate tra Tommasi e Clerici, ma ci ha regalato l’opportunità di entrare in campo, di guardare i dettagli, di sentire le emozioni. Di vivere il tennis, insomma. Il pubblico, anziché diminuire, è aumentato. E ha innescato un altro meccanismo straordinariamente semplice eppure fondamentale: lo sviluppo del merchandising. Non portachiavi e penne da cinquanta centesimi. Ma magliette, pantaloncini, fasce per i capelli, scarpe. Chi pensava che la guerra Nike-Adidas si giocasse solo su un campo da calcio, ha sbagliato. Roger Federer, Rafa Nadal, Serena Williams e Maria Sharapova sono per Nike testimonial fondamentali. Così come Andy Murray, Jo-Wilfried Tsonga e Ana Ivanovic, per Adidas. Perché il tennis muove denaro: si rivolge a un pubblico più danaroso, più attento, più disponibile. Così a ogni torneo dello slam, su ciascuno dei giocatori viene costruito un nuovo look pronto a essere venduto da lì al prossimo torneo, dove ce ne sarà un altro, appena studiato e commercializzato. Il lato glamour del tennis agevola parecchio. Così tanto che nel business hanno deciso di entrare marchi che con lo sport non c’entravano. Al numero uno del mondo, il serbo Novak Djokovic, è arrivata l’offerta (e i milioni) di Uniqlo, catena nota per il cashmere a bassissimo costo. A Thomas Berdych quella di H&M, il colosso della moda low cost che ha scelto di buttarsi in un mercato che non conosce, ma che evidentemente gli sembra interessante.
La sovrapposizione dei contesti è un’altra delle chiavi che aprono i cassetti di questa storia. Perché il tennis mescola. Miscela mondi distanti: l’epica con la moda, la televisione con la sobrietà dello stile e degli atteggiamenti, il tecnicismo e la letteratura. Perché nulla come il tennis dilata e restringe. Una partita veloce può essere infinita. Il problema non è il tempo, ma che cosa ci infili in quel tempo. Quest’età dell’oro che si congiunge all’età dorata passa anche per i libri. Per l’autobiografia di Andre Agassi che ha cambiato il modo di raccontare la vita e l’anima di uno sportivo di fama mondiale. Due anni e mezzo in classifica in Italia, mentre la tv butta fuori tennis più che mai, mentre raggiungiamo risultati che non avremmo pensato di poter raggiungere. Open ha funzionato e funziona per che cos’è, per com’è e perché è uscita nel momento giusto. Era l’anello di congiunzione mancante, l’altra variabile che entra e invece di modificare il senso e il risultato della nostra equazione, la facilita a raggiungere lo zero. È il contenitore nel quale uno spicchio di questa rimonta del tennis s’appoggia. Lì dentro ora c’è anche Tennis di John McPhee, uscito da Adelphi per la prima volta in Italia. Un libro del 1969 che sembra scritto oggi. In classifica anche lui per il solo fatto di essere stato pubblicato ora, in quest’epoca di definitivo riposizionamento di uno sport che molti davano per finito, per vecchio, per non più spendibile. La letteratura aiuta a mantenere di più questo momento. Durerà? Non c’è risposta, se non quella dell’istinto, quella che ti fa mettere la racchetta in opposizione per rimetterla in campo. Questo è il momento di giocarsela. Alto e basso, tra Wimbledon e i circoli di provincia, illudendosi di essere dei Federer dei poveri. Perché la differenza sta qui. Il tennis ti fa sentire padrone del tuo destino: la realtà è che spesso si butta la palla in campo, senza neanche sapere perché, senza neanche sapere come, senza sapere dove andrà. È lì che si gioca tutto e spesso, molto spesso, lo puoi sapere soltanto tu. L’ha detto detto Agassi: «Se la gente potesse sentire quello che ci dicono i coach capirebbe che il tennis è molto più che colpire una palla».
Giuseppe De Bellis Barese, vice-direttore de Il Giornale. Scrive di calcio e umanità varia sul Foglio con lo pseudonimo di Beppe Di Corrado. Quattro libri pallonari. twitter @giudebellis