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 2013  settembre 05 Giovedì calendario

DAI CENTRI PER L’IMPIEGO ALL’APPRENDISTATO, QUANDO LA BUROCRAZIA BLOCCA IL LAVORO

La burocrazia mangia il lavoro? Le imprese grandi e piccole almeno su un punto sono unite: nella nostra legislazione del lavoro esistono troppe discrezionalità, troppi poteri sovrapposti, troppe aree grigie che finiscono per scoraggiare chi deve assumere e vorrebbe avere regole certe davanti a sé. L’obiettivo è quello di conciliare la ricerca della flessibilità e il rispetto dei diritti ma quando si mette in mezzo la burocrazia tutto diventa più difficile. E non si può dire certo che la maggiore innovazione istituzionale degli ultimi anni, il federalismo, abbia aiutato il lavoro. Tutt’altro e la cosa va annotata con profondo dispiacere.
Centri per l’impiego
Prendiamo i centri per l’impiego, quelli che dovrebbero essere gli hub dell’incontro domanda-offerta e invece in realtà riescono a intermediare solo 3 assunzioni su 100. I centri sono sotto la giurisdizione delle Province e risentono ovviamente del differente livello di efficienza delle amministrazioni locali. Culturalmente poi sono rimasti molto indietro, non hanno tempo e mentalità per dedicarsi alla pedagogia minima di chi cerca un’occupazione (a cominciare dallo scrivere un buon curriculum) e soprattutto non si rivolgono alle aziende per favorire e incentivare la ricerca di personale. È chiaro che dal punto di vista metodologico le agenzie private del lavoro (le varie Manpower, Gi Group, Adecco, ecc.) sono avanti anni luce e già svolgono una funzione sussidiaria. Di fronte a questa situazione di palese asimmetria culturale c’è il rischio che per gestire i fondi europei della youth guarantee (importantissimi!) qualcuno proponga un’infornata di assunzioni per i centri dell’impiego. Le imprese, invece, vedono di buon occhio il finanziamento di progetti comuni tra struttura pubblica e agenzie private misurati sulla base dei risultati. Sembra l’uovo di Colombo ma la politica e la burocrazia non colgono l’urgenza di operare per discontinuità. E quindi incrociamo le dita.
I tirocini
Passiamo ai tirocini, sapendo che nel recente passato se n’è abusato. Ci voleva una regola e la legge Fornero è intervenuta imponendo parametri più severi e demandando la materia alle Regioni. Però solo sei o sette di esse hanno recepito le linee guida ministeriali con il risultato di rendere difficile l’uso del tirocinio. In più ogni Regione ha adottato dispositivi differenti e le imprese localizzate in più territori si trovano, almeno inizialmente, spiazzate. Da Roma poi è arrivato l’input che a fare premio è la sede legale e quindi a tutte le filiali vanno applicate le regole di quella Regione, ma ci vuol poco a capire come tutto ciò abbia e continui a scoraggiare le assunzioni. Non è un caso che nel documento comune di Genova sottoscritto da Confindustria e sindacati si chieda di riaffrontare il tema del titolo V della Costituzione in modo che il ministero si riappropri di tutta una serie di competenze. Le imprese criticano anche la legge Fornero perché ha limitato eccessivamente la finestra temporale per accedere ai tirocini e in definitiva li ha resi più difficili.
Tempo determinato
Il quaderno delle doglianze anti-burocratiche non si ferma qui. C’è anche la delicata materia dei contratti a tempo determinato. La legge concede alle imprese 12 mesi di cosiddetta «acausalità», ovvero il contratto non deve essere legato a uno specifico progetto. Passato l’anno l’impresa per rinnovarlo deve però addurre «motivi organizzativi» e questa formula crea una zona interpretativa «grigia» che alimenta il contenzioso legale, la discrezionalità dei giudici del lavoro e il rischio di sanzioni. Tutto ciò alle orecchie dell’imprenditore che vuole assumere finisce per suonare come un disincentivo totale che lo porta a rimandare o archiviare la decisione di ampliare gli organici. È opinione di molti che sarebbe meglio introdurre, come fa mezza Europa, un tetto massimo temporale piuttosto che affidarsi a una causale che genera incertezza. Nella sperimentazione concordata per l’Expo 2015 si sta valutando l’ipotesi di introdurre un contratto senza causale che però sia il primo rapporto di lavoro in assoluto e comunque non superi i 12 mesi. È chiaro che qualsiasi semplificazione burocratica rende più facile assumere alle piccole imprese che non hanno la struttura dell’ufficio del personale che hanno le grandi per barcamenarsi nei meandri del diritto del lavoro made in Italy.
Apprendistato
Altro tema di frontiera è l’apprendistato. Mentre l’Europa sta cercando di scrivere un glossario comune delle professioni con profili validi a Dusseldorf come a Bari, le Regioni italiane decidono gli standard formativi, previsti dal contratto di apprendistato, l’una in maniera diversa dall’altra. E stiamo parlando di saldatori a filo o mestieri equivalenti! Le imprese chiedono alle Regioni di organizzare i corsi di formazione, spesso gli enti locali non sono in grado e quando l’Ispettorato del lavoro va in fabbrica sanziona duramente le aziende inadempienti. Il risultato è che i contratti di apprendistato stipulati in Italia sono circa 70 mila a trimestre, in Europa si viaggia a sei zeri. La colpa è in gran parte proprio degli impedimenti burocratici che a livello di territorio complicano la definizione del piano formativo e la successiva verifica. Anche in questo caso i primi a scappare da quello che reputano un rompicapo sono i piccoli imprenditori e fortunatamente il recente decreto Lavoro predisposto dal governo Letta ha stabilito un limite entro il quale se le Regioni non hanno legiferato sulla materia scattano in automatico le procedure di semplificazione.
Lavoro intermittente
Infine il lavoro intermittente, quello che riguarda settori ad alta stagionalità come il turismo. Le norme prevedevano che fosse autorizzato solo in presenza di mansioni «esecutive e ripetitive» ma quella congiunzione ha generato numerosi conflitti interpretativi, al punto che il legislatore è intervenuto sostituendo alla «e» una «o» per rendere più spedita la valutazione. Ma la verità che emerge da questo e altri esempi è quella di uno Stato che sostanzialmente non si fida degli imprenditori ed è quindi portato ad erigere vincoli e paletti che non servono di fatto a tutelare il lavoratore ma a renderne più arduo l’ingresso nel mondo del lavoro. E ad alimentare un contenzioso che fa crescere le pendenze legali e intasa i tribunali.
Dario Di Vico

SALVIA
ROMA — La tagliola sulle ex municipalizzate scatterà dopo due anni di bilancio in perdita. Con l’obbligo di vendita delle quote se quella del Comune è una partecipazione di minoranza. E con l’imperativo di liquidare l’intera società se invece il Comune ne possiede più del 50%. Non solo. Per ripianare le perdite sarà sbarrata la strada del salvataggio dall’alto, finora percorsa troppe volte. A tappare il buco non potrà essere più lo Stato, con relativo trasferimento di denaro fresco. Il compito spetterà allo stesso Comune con l’unico strumento che resta nelle mani dei sindaci: l’aumento delle tasse locali, dalle addizionali Irpef alla service tax che verrà.
Il governo torna ad occuparsi del cosiddetto capitalismo municipale, quella galassia di 3.600 società partecipate dai Comuni che dal perimetro classico dei servizi pubblici locali,come energia, trasporti e rifiuti, si è allargata nel tempo verso la cultura, lo sport, il commercio, le varie e pure le eventuali. Il pacchetto allo studio dei tecnici del ministro per gli Affari Regionali, Graziano Delrio, dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri nelle prossime settimane, sotto forma di decreto legge. Un intervento d’urgenza perché per le società partecipate ci sono due scadenze, ormai vicinissime. Entro il 30 settembre tutti i Comuni al di sotto dei 30 mila abitanti dovrebbero cedere tutte le loro partecipazioni. Mentre entro la fine dell’anno i Comuni che hanno fra i 30 mila e i 50 mila abitanti dovranno fare le loro scelte, conservando le loro partecipazioni al massimo in una sola società. Un obbligo di ritirata deciso nel 2010, più volte prorogato come da antica tradizione italiana e anche corretto dallo Corte costituzionale che ha «salvato» le società controllate dalle Regioni, cancellando la parte che le riguardava.
Le due scadenze potrebbero essere congelate, ma solo a patto di far partire nel frattempo le nuove regole generali. Cominciando dalle misure «punitive» in caso di buco di bilancio. In realtà la logica di questa modifica sta nel principio di responsabilità. Il salvataggio dall’alto delle società in rosso, per mano dello Stato, ha consentito ad alcune municipalizzate di distribuire dividendi anche quando erano in perdita. E soprattutto ha spalmato su tutti i contribuenti italiani il costo dei salvataggi che si sono ripetuti nel tempo. Il buco di Palermo, per fare un esempio, veniva pagato da tutti gli italiani. Con le nuove regole, invece, se il buco è a Bologna saranno gli stessi cittadini di Bologna a pagarlo con le tasse locali più alte. Il che non significa accanirsi sui bolognesi ma mettere sul chi va là il loro sindaco: l’aumento delle tasse locali è garanzia di mancata rielezione. E quindi il sindaco starà ben attento a non creare un buco che gli costerebbe politicamente caro. O almeno questa è l’idea. Resta però da definire cosa si intende esattamente per «buco di bilancio». Gli anni in perdita consecutivi utili per far scattare le sanzioni dovrebbero essere due, ma la discussione è ancora aperta. Ed è possibile che vengano considerati in perdita solo i bilanci con un «rosso» al di sopra di una certa soglia.
Ma non c’è solo questo nel pacchetto allo studio. Prima di tutto la cornice: i Comuni saranno chiamati a «giustificare» le loro partecipazioni. Dovranno cioè fare un elenco delle politiche pubbliche che vogliono perseguire e poi motivare il ricorso ad una società, possibile solo se non ce ne sono già disponibili sul mercato o nel terzo settore. Una norma di programma che però, insieme alle sanzioni in caso di rosso, potrebbe frenare quell’attivismo che ha portato i Comuni a crearsi le loro società per gli scopi più diversi. Ad oggi i componenti dei consigli d’amministrazione hanno raggiunto quota 24 mila, un dato sottolineato anche dalla Corte dei conti che ha definito le partecipate il «vero cancro degli enti locali».
In alcuni settori come l’acqua, i trasporti e i rifiuti saranno incentivate le alleanze fra Comuni e l’ambito territoriale ottimale sarà quello delle attuali province. Il pacchetto si aggancia così proprio al disegno di legge per l’abolizione delle Province presentato dallo stesso Delrio, che ieri ha lanciato il federalismo demaniale, con il trasferimento ai Comuni di 20 mila immobili dello Stato per un valore di 2,5 miliardi di euro. Non è una contraddizione. Perché è vero che le Province non ci saranno più come organi politici, con elezioni, assessori e consiglieri. Ma è anche vero che il territorio della provincia consente di ridurre i costi di quei servizi che non possono seguire la regola dell’ognuno per sé.
Lorenzo Salvia