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 2013  agosto 30 Venerdì calendario

QUELLO COL CHIODO

Palazzo Pandolfini, Firenze, un afoso pomeriggio di giugno. Fabio Rizzo, in arte Marracash, sta per esibirsi nel private party che Rolling Stone ha organizzato con Puma durante l’ultima edizione di Pitti Uomo. Ha anche posato per questo shooting, dove lui è il “King of Rap” italiano, il ragazzo della Barena che ha sfondato con un genere musicale fino a qualche anno fa misconosciuto, inneggiando alle proprie origini popolari e ai valori tamarri della periferia. Cinque minuti di chiacchiere, sull’ultimo Kanye West, sull’insulsaggine di Tyler The Creator, e scopro che non è andata proprio così. Che il Marra, le sue origini, le odiava. Che odiava il ceto basso da cui proveniva. Che il suo passatempo preferito consisteva nel rinnegare i suoi genitori e la loro medietà. Me lo confessa, mentre scrolla sull’iPhone l’unico “reperto” che dice di avere dei suoi 16 anni: una foto di classe. ITIS Torricelli, periferia di Milano, 1995. «Guarda, io sono questo qui, il più disperato». Si ingrandisce con le dita. «Quello col chiodo».
Eri un metallaro... Sembro Natale di Mery per sempre, vero?
Quando hai iniziato a rappare? Sul finire delle Superiori. Al posto di fare i disegnini, durante le lezioni, scrivevo sul quaderno tutte la parole che facevano rima fra di loro, senza cercare necessariamente un senso nelle assonanze. Volevo farmi un rimario.
Ce l’hai ancora? No, non sono uno che conserva le cose. Era un quaderno unico per tutte le materie. AU’inizio dell’anno riempivo lo zaino con la Smemoranda, il quaderno e giusto i libri indispensabili. Poi non rifacevo più la cartella per nove mesi.
E lo zaino? Un Eastpak. Rubato.
Addirittura. Ai tempi seguivo una corrente “illuminista” per cui giustificavo un certo tipo di azioni. Di base c’era che non avevo una lira, quindi ero abbastanza ladro. Avevo trovato una giustificazione morale a tutto ciò, secondo la quale se tu non avevi cura delle tue robe era giusto che io te le rubassi. Ed ero diventato bravo, perché un sacco di gente non cura la propria roba. Giravo la sera nelle discoteche e portavo via di tutto.
Ti dava fastidio l‘incuria? No, ma se tu lasciavi lo zaino lì e te ne sbattevi, allora io avevo il diritto di fregartelo.
In base a quale cavillo etico? Ero fermamente convinto che la mia povertà fosse una cosa ingiusta.
Eri davvero così povero o giocavi a fare la vittima? Ero un ragazzino molto superbo, consapevole della propria intelligenza. Odiavo i miei genitori, mi stava sul cazzo il loro insuccesso, mi stava sul cazzo non avere le cose che gli altri avevano.
Ad esempio? Una casa. Fino a 10 anni avevo vissuto in zona Bramante, in centro, poi era arrivato lo sfratto. Funziona che quando ti cacciano fuori da una casa popolare ti mandano in un albergo o in un residence convenzionato. E dopo un anno siamo finiti in Barena, che negli anni ‘90 era uno zoo...
Tipo che avevi paura di andare a scuola la mattina? All’inizio sì. Non ero del quartiere, dovevo abbassarmi al livello degli altri.
Come? Ad esempio, mi ero inventato che facevo kung fu. Poi una volta mi portarono un tizio che il kung fu lo faceva veramente. “Dai, facci vedere”. E io mi misi a girare su me stesso dando scarpate alla rinfusa. Vedevo un sacco di film sulle arti marziali. Non poterono dire che mentivo.
Che cosa ti ha salvato dalla brutalizzazione? Il rap. A 16 anni comincio a frequentare il “muretto”, in San Babila, e mi accorgo che c’è dell’altro al di fuori della Barena.
Ma al rap come ci sei arrivato? Ascoltando gruppi crossover tipo Biohazard, RATM, Korn. Mi piaceva questo fatto che all’improvviso spuntasse fuori qualcuno che rappava, nel pezzo metal. Così ho iniziato ad ascoltare gruppi come Cypress Hill e le robe più hardcore di rap italiano. Il primo è stato Kaos.
Facevi attenzione al senso delle canzoni? La prima cosa che mi colpì del rap furono proprio i testi.
E a scuola? Mi interessavano le materie umanistiche. Nelle altre non provavo neanche a fare finta. Ad esempio, matematica: consegnavo sistematicamente il compito in classe in bianco. Alla maturità la prof voleva portarmi con 2, e io ci litigai: “Ma come, io non l’ho mai presa per il culo, gli altri invece copiano e prendono 4”. Alla fine mi portò con 4.
Questa tua supponenza è un’eredità genetica di papa o di mamma? Nessuno dei due. I miei sono super umili. Mentre io ho sempre odiato le mie origini, da ragazzino. Ora invece ne faccio una forza. Odiavo essere “il marocchino”, odiavo essere siciliano e che i miei parlassero il dialetto in casa, odiavo che quando eravamo in Sicilia si andasse al mare con tutta quella roba da mangiare appresso e non si potesse fare il bagno fino alle cinque.
Che cosa è successo al muretto? Ho cominciato a desiderare cose nuove. E quell’ignoranza che tanto odiavo l’ho fatta mia, ne ho trovato il lato goliardico, è diventata una forma di rivendicazione contro le cose sofisticate, l’ho trasformata in estetica. Insomma, a un certo punto mi ritrovo a scrivere: anche dopo aver finito le superiori, quando lavoravo. Facevo il magazziniere, già mi vedevo imprigionato in quella condizione sociale e iniziavo ad avere un’ansia che mi sarei tolto solo nel 2008. Era l’ansia per il mio futuro. La mia più grande paura era di finire come i miei genitori.
Che lavoro facevano i tuoi? Mia mamma fa tuttora la bidella e mio papa il camionista.
Ma erano persone oneste...Appunto! Era quell’onestà che va oltre l’onestà. Un prenderla nel culo tutta la vita.
Insomma, il contenuto ideale di una rappata. Il mio primo testo in assoluto risale al 1998. Mi ero fatto dare delle basi su cassetta, al muretto. Adesso, per fare il figo, devi fare il tipo di strada, ai tempi invece dovevi mettere nei testi una saggezza quasi Shaolin, alla Wu-Tang Clan, per cui le rime erano astratte, piene di citazioni, di metafore tipo: “II mio rap fa cambiare senso alle cascate”. Oggi devi stare attento a non mettere parole troppo forbite, sennò sei uno sfigato, questo è l’andazzo. Ecco, nel mio primo testo, cercando di essere il più aulico possibile, parlavo del mito di Aiace, secondo cui, se tu tutta la vita l’avevi presa nel culo, solo la morte ti rendeva giustizia.
Aiace dove lo avevi pescato? A scuola. Avevo una professoressa che mi piaceva, si chiamava, oddio, ricordo solo il nomignolo: purtroppo “buzzicona”. Ma le volevo molto bene.
Nei temi quanto prendevi? Tanto. Anche perché fin dalle scuole elementari sono sempre stato un avido lettore.
Una passione che hai coltivato in casa? Per farti capire, mia mamma, quando mi vedeva in mano con i classici di Jules Verne o di Tolkien, mi diceva: “Cazzo leggi quei libri di merda che ti riempiono la testa di cagate?”. E io, per ripicca, a cena mangiavo leggendo.
Parlavi mai di libri con gli amici della Barena? Ce n’erano alcuni a cui raccontavo per intero i romanzi fantasy.
L’ultimo libro letto? Ho finito ieri Zero Zero Zero di Saviano.
Ti è piaciuto? Non mi ha detto niente di nuovo.
Un autore che hai letto di recente e ti ha soddisfatto? Murakami, il terzo volume di 1284. Adesso sono alle prese con un trattato di genetica, Il gene egoista, di Richard Dawkins.
Hai mai pensato di diventare uno scrittore? Ho sempre accarezzato questa idea, prima del testo rap avevo scritto roba non rap.
Tipo? Racconti brevi, poesie.
Che racconti erano? Ho cominciato a scrivere quando sono arrivato in Barona, erano storie che partivano dalla mia esperienza personale, ma non ero io il protagonista. Vivevo le cose e intanto me le raccontavo in testa in terza persona. Perché mi sembravano eccezionali. Erano racconti di una pagina, scritti a mano.
E le poesie? Per le ragazze.
Come si impara a rappare? Al muretto avevo cominciato a fare freestyle, dove impari la metrica. E la metrica la cosa difficile del rap. La musicalità, il ritmo di quello che scrivi.
Nell’epica classica la metrica fece sì che opere ciclopiche come l’lliade e l’Odissea di Omero venissero tramandate oralmente dai cantori. Erano più facili da imparare a memoria. Nel rap succede qualcosa di simile? Esattamente. La metrica del rap sta tutta nell’accento, nelle pause, in quello che viene chiamato il flow, il flusso: un insieme di varie cose fra cui l’impostazione della voce e la “delivery”, il saper rendere efficaci il tuo testo e la tua metrica. Tu puoi avere una metrica molto bella e molto serrata, e magari tecnicamente difficile, ma se non hai la delivery, non funzionerà.
Ho sempre pensato che il ritmo, nel rap, lo desse il beat, la musica. No. Quando scrivevo avevo tutto in testa, lo facevo mentalmente, senza beat. E una questione di sillabe, di fare entrare tot sillabe in una frase. Io, ad esempio, sono stato il primo in Italia a spezzarle. E diventato il mio marchio di fabbrica.
Ma il primo step era sempre la stesura di un testo. All’inizio sì. Avevo una capacità che adesso non ho più, quella di mettere giù i versi in testa. Avevo molto più tempo libero, magari lavoravo e, in quelle otto ore da magazziniere, continuavo a pensare ai testi e li imparavo a memoria.
Dopo Mtv Spit ti sarai fatto un’idea sulla percezione che la gente ha del rap oggi... C’è un sacco di appiattimento, mi sembra che i ragazzini abbiano mangiato la foglia e tentino di bruciare le tappe rapidissimamente. Sono talmente smaliziati che scrivono per arrivare, mentre una volta era talmente impensabile sfondare con il rap, vendere dischi ed essere primi in classifica, che non ti ponevi neanche l’obiettivo.
Il freestyle è utile per imparare a comporre pezzi rap? Non necessariamente. Il freestyle è quasi uno sport dove si allena il cervello, come fosse un muscolo, alla reattività.
Ma quel famoso rimario l’hai mai usato? No, non è servito a niente, era solo un passatempo. Come disegnare cazzi sul foglio.