Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 5/9/2013, 5 settembre 2013
COME UNA DATA SI FA SIMBOLO
I bambini che seguivano Carosello, e magari era proprio il Sessantotto, si rallegravano con «È arrivato Lancillotto / or succede un quarantotto». La consideravano come una filastrocca, dove “un quarantotto” era come le tre civette sul comò o la palla di pelle di pollo, o come certi altri numeri misteriosi (Quarantasette, morto che parla; cento, la toilette; fino a «Centocinquanta, la gallina canta», di cui fece giustizia Achille Campanile). Non si aveva insomma alcuna idea su cosa si dovesse intendere per quel numero, e perché. Giunti verso la fine del liceo alle rivolte parigine, a molti tornò in mente Lancillotto: ecco a cosa si riferiva “un quarantotto”! Rivolta e caos, un anno di totale bagarre.
Con “otto settembre” va al contrario: si capisce subito che è una data, ma è più difficile cogliere il senso generale dell’allusione. Anche lì si parla di battaglie, confusione e “smarrimento” (è la parola più usata dagli storici a proposito del periodo che si aprì con l’8 settembre 1943). Ma se quella data ha costituito uno dei
Luoghi della memoriaitaliani recensiti da Mario Isnenghi (Laterza, 1997) è per un motivo ulteriore: oltre al caos e al collasso sistemico c’è infatti l’intrico illogico, il paradosso. Lo ha ben formulato una volta Emilio Lussu: «la guerra ufficialmente era finita, mentre continuava».
Il processo linguistico che sgancia una data dalla storia e ne fa un’espressione comune è a sua volta complesso. Ogni giorno è unico e irripetibile, e così è stato anche l’8 settembre del 1943. Ma per certi giorni speciali una prima operazione retorica porta a usare la data per nominare i fatti che l’hanno resa memorabile. Facile esempio, l’11 settembre. Soltanto un imbecille, o un giovanissimo, sentendo nominare l’11 settembre potrebbe infatti chiedere: «Di che anno?» Ogni anno c’è un undici settembre, ma l’Undici settembre, maiuscolo e inteso come atto di guerra terroristica inatteso e di mostruosa entità, è solo e per eccellenza (o per “antonomasia”) quello del 2001. Non è facile immaginare la catastrofe che potrebbe farci dire: «è stato un undici settembre».
Lo sbandamento, l’incomprensibilità, l’abbandono delle autorità regnanti e governanti, la minaccia dell’invasore hanno colorato con le tinte più fosche la data dell’8 settembre 1943 e l’hanno resa emblema e sigillo storicamente memorabile di una specialissima evenienza italiana. L’8 settembre è diventato un’ “antonomasia”: come quando di un cauteloso si dice che è “un don Abbondio” o di un distruttore che è “un Attila” o di una débâcle che è “una Caporetto” (per restare tra le onte italiane).
L’8 settembre ha di diverso una certa ambiguità. I luoghi comuni che riguardano rispettivamente don Abbondio, Attila e Caporetto sono univoci e chiari a tutti. Ma cosa intendiamo, quando diciamo “Otto settembre”, intendendo per eccellenza quello del 1943? E cosa intendiamo quando ritorniamo alla minuscola e diciamo che una vicenda politica (nel genere di scioglimenti di partiti e di governi, ritirate paurose, vuoti di governance) ha costituito “un otto settembre”? Non si tratta però di un’ambiguità irresistibile. La stessa natura caotica dei fatti dell’estate del 1943 e il durevole sforzo storiografico di travisarli hanno provato a rendere opaca l’etichetta: “8 settembre”; essa nondimeno risulta chiarissima e inequivocabile per chi la sappia leggere: è il giorno che in Italia rappresenta l’eterna, perché sempre possibile e sempre imminente, irresponsabilità del Potere.