Marco Revelli, la Repubblica 5/9/2013, 5 settembre 2013
IL MOMENTO DELLE SCELTE
«Sembravano traversie ed eran in fatti opportunità ». Con questa citazione vichiana, scritta come dedica sulla propria copia de La scienza nova, Vittorio Foa aveva salutato il proprio compagno di cella il 23 agosto del ’43, uscendo dal carcere fascista dopo 8 anni di reclusione. Ed è forse la miglior sintesi, profetica, di quello che sarebbe stato, un paio di settimane più tardi, l’8 settembre.
Esso fu, senza dubbio, una catastrofe istituzionale di enormi proporzioni in cui tutto “andò giù” e fece naufragio un’intera classe dirigente, con la “fuga ingloriosa” del Re e la sua Corte, e il dissolvimento di ogni autorità statale. Ma fu anche un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista. E lo fu perché proprio quel “vuoto istituzionale”, quell’assenza di ogni autorità formale, rappresentano le condizioni essenziali di quello che costituisce il nucleo fondativo di ogni genuino atto morale: la scelta. La possibilità – e insieme la necessità – di scegliere, senza ordini né routine (non per nulla Claudio Pavone apre il suo splendido saggio sulla “moralità della Resistenza” con un capitolo intitolato La scelta). E di spezzare, con quell’atto, una deriva storica degradata e degradante.
È ancora Foa a esprimere il concetto quando scrive, a liberazione
non ancora avvenuta, che l’8 settembre fu in fondo un gran bene per l’Italia, perché segnò «l’inizio di un processo rivoluzionario che ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze», combattendo, oltre all’occupante tedesco, anche la parte peggiore di se stessi, quella che aveva creduto nei miti imperiali e nell’“arido egoismo” del Regime. Ed è lo stesso messaggio di un altro intellettuale d’eccezione, Giaime Pintor, che poco prima di morire, fatta la propria scelta, scrisse che «questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione».
Non sono voci isolate. Lo stesso spirito, di possibile riscrittura della propria biografia individuale e collettiva, lo si ritrova in quasi tutti i protagonisti di allora. In Massimo Mila, ad esempio, che in uno dei suoi Scritti civili attribuirà all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato ». O in Franco Venturi, il grande storico dell’Illuminismo, quando evoca il «senso di necessità che stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». O ancora in Giorgio Bocca, che nelle prime pagine del suo Partigiani della montagna descrive il dirompente senso di liberazione e di rinascita, per un giovane normalmente destinato a una vita banale e già decisa, quando «invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio».
Può apparire un paradosso, ma fu allora, nel punto per molti aspetti più basso della nostra storia, che si formò e selezionò una delle classi dirigenti migliori della nostra nazione.