Lucio Villari, la Repubblica 5/9/2013, 5 settembre 2013
8 SETTEMBRE IL GIORNO IN CUI GLI ITALIANI CAMBIARONO GUERRA
L’“Otto settembre” cominciò verso l’imbrunire ed era mercoledì. «Alle 18,30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito che è stato concluso l’armistizio con gli anglo-americani». Questa sono le semplici parole, senza altro commento, del diario di Benedetto Croce con una indicazione dell’ora che non corrisponde esattamente a quanto stava avvenendo.
Croce non poteva sapere che l’armistizio era stato firmato cinque giorni prima e che l’annuncio ufficiale era stato dato poco prima delle 18 da Radio Algeri cogliendo di sorpresa Badoglio che era con il re al Quirinale insieme ai massimi responsabili militari e al ministro degli Esteri Guariglia. Alla notizia era seguito un minaccioso radiogramma di Eisenhower che imponeva al governo italiano di annunciare subito l’armistizio sia per evitare ulteriori ambiguità verso i tedeschi sia perché non era stato possibile coordinare l’annuncio con lo sbarco di una divisione di paracadutisti americani a nord di Roma. Era fallita infatti la missione di due ufficiali americani, il generale Taylor e il colonnello Gardiner, giunti segretamente nella capitale la sera del 7 settembre per prendere visione degli aeroporti e dare il via all’operazione per la mattina dell’8. I capi militari italiani li avevano dissuasi dicendo loro che non c’erano «forze sufficienti per garantire gli aeroporti». Taylor e Gardiner delusi lasciarono Roma informando Eisenhower.
L’unico a reagire allo stupore di quanti erano al Quirinale fu il ministro Guariglia: si doveva dare la notizia. Il colonnello Luigi Marchesi, addetto allo Stato maggiore, suggerì al maresciallo Badoglio di recarsi subito all’Eiar. «Il maresciallo mi chiese di accompagnarlo. Uscii subito sul piazzale del Quirinale e chiesi ai due autisti del maresciallo se sapevano dove era la sede dell’Eiar. Non lo sapevano. Poi si fece avanti un sergente che salì accanto all’autista. Il maresciallo ed io eravamo soli. Rimase in silenzio finché giungemmo alla sede dell’Eiar in via Asiago verso le 18,50. Fummo introdotti in una saletta di trasmissione.
Intanto l’usciere era andato a chiamare il direttore che giunse quasi subito. Lo informai che il maresciallo intendeva dare al più presto un messaggio alla nazione. Il direttore spiegò che diramandolo subito non sarebbe stato sentito da nessuno e consigliava di attendere l’inizio del programma delle 19,45. E alle 19,45 il maresciallo, con evidente sforzo lesse con voce chiara e ferma il proclama dell’armistizio».
Tre minuti dopo gli italiani seppero tutto. «La gente – ricorda Paolo Monelli – fece capannelli nelle strade che già s’abbuiavano, i passanti si interrogavano l’un l’altro. “Cosa ha detto? È vero che ha detto che siamo in guerra con i tedeschi?” ». Non era ancora vero, ma quella domanda coglieva nel segno. L’Italia usciva da una guerra e entrava in un’altra. Su questa linea di confine maturò in Badoglio, nel re e in alcuni capi militari il progetto di lasciare la capitale e trasferire nel Sud liberato le persone e i simboli dello Stato italiano per salvarli dalla reazione tedesca.
Da settanta anni si discute se questa scelta, avvenuta senza che il governo e i capi militari organizzassero la difesa della capitale e lasciassero ordini precisi ai nostri soldati sparsi sui vari fronti di guerra, abbia una spiegazione razionale. La vicenda della colonna di auto che portò lungo la via Tiburtina la famiglia reale e centinaia di ufficiali al seguito a Pescara e a Ortona, le scene penose dell’imbarco sulle corvette della marina militare in attesa, insomma “la fuga di Pescara” sono state ampiamente raccontate e documentate. In quelle stesse ore Roma era difesa a Porta San Paolo, sulla via Ostiense da centinaia di soldati e di civili di ogni ceto sociale. Nasceva in questi luoghi di Roma la Resistenza e germina qui la nuova, vera Patria. Ma intanto lo Stato giungeva a Brindisi e “continuava” a funzionare con il riconoscimento ufficiale della sua legittimità da parte degli ex nemici.
Come giudicare allora questo scenario assolutamente inedito che si stava configurando in Italia? Cosa c’era in quella fuga di diverso da quanto era avvenuto nell’Europa del 1940? Il re del Belgio Leopoldo III, mentre il suo paese capitolava, era stato arrestato e internato e il suo governo era fuggito a Londra. In Danimarca, il re e il suo governo erano agli ordini di Hitler. In Olanda la regina e il suo governo erano fuggiti a Londra e qui si erano pure rifugiati il re di Norvegia Haakon VII e i suoi ministri. E potrebbe continuare l’elenco di sovrani, governi e capi politici (basti ricordare il ruolo di De Gaulle a Londra) costretti alla fuga e all’esilio, ma determinati a combattere i nazisti. All’Italia andò certamente meglio e non è quindi più accettabile, sul piano storico e storiografico, sminuire il significato del Regno del Sud e negare il ruolo che quello Stato ha svolto, anche sul piano del diritto internazionale, confermandosi nel territorio italiano come Stato sovrano, “cobelligerante” con quegli Stati che avrebbero avuto tutto il diritto di fare del nostro paese una terra bruciata e divisa. Come in Germania. Fu anche questo che ha determinato, settanta anni or sono, il risorgimento della Patria, non certo la sua fine.