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 2013  settembre 04 Mercoledì calendario

“SU LA TESTA, UN BERLUSCONI E’ SEMPRE DIETRO L’ANGOLO”

Le edicole danno un sacco di spunti. Paolo Rossi, nato 60 anni fa a Monfalcone, sta provando L’amore è un cane blu. Lo porta in scena da mesi e venerdì sarà alla Festa del Fatto alla Versiliana (ore 21.30).
“L’altra mattina compro Repubblica. Arriva una signora e chiede Il Giornale. Parte la sfida e prendo Il Fatto. Lei rilancia con Libero. Io sparo grosso e dico Il Manifesto. Lei rintuzza con Il Foglio. Ci siamo fermati, ma ho pensato alla scena di uno che esce dall’edicola pieno di quotidiani, alla Diabolik. Magari ne trarrò un monologo. Al Fatto presenterò la versione estiva. La penso come Scoglio, per lui le squadre di mare giocavano in un modo e quelle di montagna in un altro. A teatro è lo stesso”.
Quindi legge anche Il Fatto.
Leggo tutto, anche Libero e Il Giornale: mi danno un sacco di spunti, però li nascondo in mezzo agli altri quotidiani, come per Playboy. Mio padre, quando ha visto che mi esibivo da voi, ha chiesto se foste di destra o sinistra. Lui è molto di destra nella vita pubblica e molto di sinistra in quella privata. Come padre è ottimo, come politico insomma.
Cosa le ha risposto?
Ci ho messo un’ora a spiegargli come siete. Gli ho detto che siete come Montanelli, a volte sembrate di destra e a volte di sinistra. Vi accusano di essere grillini, non mi è mai parso.
Al Festival Gaber ha proposto la rilettura di Qualcuno era comunista: “Qualcuno era del Pd”. Le piace Renzi?
A sinistra hanno la fissa del 51% alle elezioni, per questo guardano sempre al centro. A Renzi vorrei solo chiedere: “Che farmaco usi?”. Così divento simpatico e mediatico anch’io. Voglio il suo farmaco segreto. E le sue camicie.
Se usasse quel farmaco, rischierebbe di piacere a tutti: sconveniente, per un satirico.
Infatti lo vorrei per la vita privata, non per la carriera. Mica ho detto che Renzi mi piace.
Adora i fantasisti che ne indovinano una e ne sbagliano tre. Anche lei è così?
Se fossi stato un calciatore, avrei buttato quasi tutta la mia carriera. Per fortuna chi fa teatro ha più anni a disposizione. Con gli anni sono diventato più rigoroso.
Quando ha sbagliato partita, come Beccalossi in un suo famoso monologo?
Firmando con Mediaset per Scatafascio. Con me c’era quasi tutto il cast di Su la testa! e Il laureato, solo che molti avevano firmato per più anni e io no. Stava arrivando Zelig. Mi mandarono in Bolivia a combattere senza pistole. Dopo quella esperienza ebbi una malattia autoimmune e rimasi due mesi in ospedale al neurologico. E poi ero un po’ troppo avanti.
Ogni tanto le capita.
Quando feci La commedia da due lire, due giorni che esplodesse Tangentopoli. O quando immaginai un presidente che costruisce uno squadrone di calcio per poi diventare Premier. Pensavo di avere esagerato.
La attrae il tema dei borderline.
Lo siamo tutti. Il banchiere, il commesso. Tutti recitano. Anche il politico: è andato oltre il Berlusconi di Montanelli, che crede nelle bugie che dice. Il politico odierno sa di mentire in tivù. Poi torna a casa, si riguarda e si compiace.
E l’artista?
Se tutti mentono, noi dobbiamo inseguire una sorta di equilibrio chimico con il nostro presente. Dobbiamo essere gli unici a non recitare, perché se il pubblico scopre la bugia è finita. E poi dobbiamo dare conforto. Non voglio diventare new age, ma è più importante un “grazie” di un “sei bravo”.
Qual è la cosa più triste da sentirsi dire?
Quando le persone ti dicono che sono venute a vederti solo perché era gratis. Per quelli come me, e il mio gruppo “I virtuosi del Carso”, è una coltellata al cuore: fare arte popolare per un pubblico che non ha i soldi per ascoltarti. Un dilemma politico che dovrò risolvere”.
Insiste spesso sulla differenza tra rubare e copiare.
Copiare a teatro significa rifare le stesse cose e sperare che non ti becchino, è da mediocri. Rubare vuol dire riprendere i classici e reinterpretarli. Lo faccio di continuo. Quando qualcuno mi dice entusiasta di avere avuto un’idea mai avuta prima, gli faccio notare che se nessuno l’aveva mai avuta un motivo c’è.
Era vero l’aneddoto di quando la fermarono al volante, controllarono la patente e le chiesero: ah, Paolo Rossi. Ma lei è il fratello?
Vero. Ormai confondo aneddoti accaduti a me e ad altri, negli spettacoli ci entra di tutto, ma quello mi è accaduto davvero. Dopo i Mondiali 82. Come se i genitori ci avessero chiamato tutti Paolo.
Ha lavorato con Jannacci, Gaber, Fo, Andreasi. Fenomeni ripetibili?
No, perché figli della loro epoca. Qualcosa però c’è ancora. Ho fatto anche laboratori teatrali coi giovani, ma l’unica scuola vera rimane la strada.
Su la testa! fu un’esplosione di talento. Anno 1992, interregno tra Craxi e Berlusconi. Potrebbe accadere di nuovo?
Per la prima volta, a questa domanda rispondo di sì. Sento un’aria simile. Sarebbe forse l’unico modo di parlare a tutti senza chiedere il biglietto: tornare in tivù. Saprei anche dove ambientare Su la testa 2: al circo. Senza ballerine né nani. Tranne me, ovviamente.