Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 4/9/2013, 4 settembre 2013
MICROSOFT SI MANGIA NOKIA FINISCE L’ERA DEL CELLULARE
La prima vita dei cellulari è finita ieri. Con la Microsoft che si compra la Nokia, o meglio, la parte di Nokia che produce telefoni, i brevetti relativi e lo smarphone Lumia. Il prezzo è da outlet, 5,44 miliardi, e l’accordo si limita a sancire la definitiva sudditanza dell’hardware al software: già da tempo l’ex colosso finlandese che dieci anni fa dominava il mondo ha affidato le sue speranza alla Microsoft, a sua volta grande sconfitta nella competizione con Apple per l’egemonia culturale nell’informatica. Il Lumia, disperato tentativo di Nokia di rimediare alla sottovalutazione delle potenzialità degli smartphone, usa Windows, il sistema operativo di Microsoft. E l’attuale amministratore delegato della Nokia è Stephen Elop è arrivato nel 2010 dalla Microsoft e lì potrebbe tornare quando, tra un anno, l’attuale capo dell’azienda Steve Ballmer andrà in pensione.
LA NOKIA FINLANDESE, che in Borsa ha perso l’80 per cento del valore in cinque anni, continuerà a esistere come entità autonoma, si occuperà di servizi alle compagnie telefoniche, di mappe e navigatori satellitari. Ma i cellulari che l’avevano trasformata nel simbolo mondiale dell’innovazione (ricordate il mitico Nokia 1100, 250 milioni di esemplari venduti? Con il gioco Snake?) saranno della Microsoft. Tra gli storici produttori di device , come si dice in gergo, cioè di apparecchi, resta solo la Rim, Research in Motion, l’azienda del marchio Blackberry che è solo in attesa di un compratore, vacillante da anni (non ha capito l’importanza del touch screen in tempo).
Google si è comprata la Motorola, che inventò lo StarTac, per 12,5 miliardi. La Sony aveva rilevato i telefoni Ericsson, ma i prossimi modelli li venderà solo a marchio Sony. La coreana Samsung si divide il grosso del mercato con Apple, con la sfida continua Galaxy contro iPhone, ma si prepara ad anticipare le mosse dell’azienda di Cupertino puntando sugli smartwatch, i cellulari da polso. La grande idea del settore insieme ai Google glass. I numeri dell’acquisizione di Microsoft sono però poca cosa a confronto dell’altra grande operazione di questi giorni: approfittando della chiusura di Wall Street per il Labor Day l’americana Verizon ha pagato 130 miliardi di dollari a Vodafone per rilevare la sua quota della joint venture Verizon Wireless, il più grosso operatore di telefonia mobile negli Stati Uniti. Come è successo nel settore dei personal computer vent’anni fa, nella telefonia i soldi non si fanno più tanto con gli apparecchi, quanto con i servizi. Ma quattro fattori hanno reso la vita sempre più complicata agli operatori, Vodafone inclusa: la crisi; la concorrenza, che ha ridotto i margini; l’innovazione, che ha cancellato lucrose forme di introiti come gli sms (ormai sostituiti dalle applicazioni come Wazzup); e le politiche regolatorie che, soprattutto in Europa, stanno riducendo le rendite dal controllo delle infrastrutture.
E ALL’IMPROVVISO è partito quel processo di consolidamento che gli analisti avevano previsto da tempo: in un mondo più complesso sopravviveranno solo pochi giganti, non c’è spazio per i nani. Vodafone userà parte dei soldi ricevuti da Verizon (su cui paga pochissime tasse, cinque miliardi negli Stati Uniti, zero in Gran Bretagna dove ha la sede fiscale, e su questo c’è un po’ di polemica) per espandersi in Europa: in Germania punta a Kabel Deutschland, ma si guarderà intorno anche altrove.
L’Italia osserva questi sommovimenti abbastanza passiva. Wind è in mano ai russi di Vimpelcom, Tre Italia è dei cinesi di Hutchinson Whampoa il cui progetto di fusione con Telecom Italia è fallito subito. Il gigante delle telecomunicazioni italiano è poco più di una comparsa nelle dinamiche mondiali del settore: in Borsa vale 7,1 miliardi, Vodafone 117, Telefonica (la compagnia spagnola che di Telecom è azionista) 46,7. E da inizio 2013 Telecom ha perso il 22,47 per cento del proprio valore. É sempre più chiaro che nel grande riassetto delle telecomunicazioni l’azienda guidata da Franco Bernabè può soltanto essere una preda. Ma neppure questo è così facile. Una delle ragioni per cui è fallita l’alleanza con Hutchinson Whampoa è che prima di consegnare Telecom in mani straniere bisogna decidere il destino della rete, cioè l’infrastruttura che serve anche ai concorrenti per offrire servizi e che è considerata di importanza strategica per il Paese. Pare inevitabile che venga rilevata dalla Cassa depositi e prestiti, ma l’accordo su prezzo e condizioni è ancora molto lontano.
L’ALTRO PROBLEMA è l’assetto azionario: a partire da domenica i soci della holding Telco, costruita nel 2007 per salvare l’italianità dell’azienda detenendo il 22,4 per cento del capitale, potranno dare la disdetta dal patto di sindacato. Che segnerebbe la fine della holding in cui sono riunite Mediobanca e Generali (già pronte a lasciare il patto) oltre a Intesa e agli spagnoli di Telefonica. Se Telco si spacca, il controllo di Telecom tornerà contendibile e da giorni la Borsa spinge in alto il titolo scommettendo su un qualche sviluppo, nell’ultimo mese il rialzo è stato del 14,2 per cento. Ma ormai le partite decisive delle telecomunicazioni si giocano molto lontano dall’Italia.