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 2013  settembre 02 Lunedì calendario

L’ITALIA PUFFA DA 50 ANNI

In Italia i fumetti dei Puffi hanno avuto tre sfortune: la prima di essere pubblicati in modo disordinato, disertando gli scaffali per anni. La seconda è che sono stati oscurati dalla popolarità del cartone animato. E la terza è che proprio il cartoon li ha degradati a testimonial politico. Un anno fa il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri rievocava: “Chi promuove la libertà d’innovare delle imprese e la libertà di scegliere dei cittadini, che sono anche consumatori, si rivolge in via diretta al pubblico, alla platea di chi decide programmi e acquisti, ne cerca il sostegno in prima persona: nel 1984 sono le manifestazioni degli spettatori che vogliono ritrovare sul video i Puffi, nel 1994 sono gli elettori che votano primo ministro l’inventore di Canale 5, nel 1995 sono i votanti che respingono con larga maggioranza il referendum dell’ex Pci per amputare Mediaset”. Il 16 ottobre 1984 i pretori di Torino, Pescara e Roma, sequestrano gli impianti che consentono a Canale 5, Italia 1 e Rete 4 di trasmettere in contemporanea in tutt’Italia violando alla legge. La pressione berlusconiana che poi spinge Bettino Craxi a riaccendere le tv con due “decreti Berlusconi” si fa in nome del diritto a vedere i Puffi.
Morale: per questa triplice coincidenza quasi nessuno si è accordo che nel 2013 ricorre un anniversario da celebrare, i 50 anni dei Puffi in Italia. Puffi intesi come fumetti, le storie create dal belga Pierre Cuilliford in arte “Peyo” apparse per la prima volta su sul numero 1107 di Le Journal de Spirou il 25 luglio 1959 (Spirou è uno dei personaggi storici del fumetto francofono). In Italia arrivano quattro anni dopo, sulla dimenticata rivista Tpitì dell’editore Dardo. E non si chiamano Puffi, ma Strunfi, in una italianizzazione più letterale del buffo nome in francese, Les Schtrupf. Leggenda vuole che nel 1958 Peyo chiede a un amico di passagli il sale, ma gli manca la parola giusta, “Passe-moi le... schtrumpf”, cioè “passami il coso”. L’altro prolunga lo scherzo e gli risponde: "Ecco il tuo puffo. Quando avrai finito di puffare, ripuffalo al suo posto!”. E così nasce uno degli elementi di successo dei Puffi, quel linguaggio semplficato in cui i sostantivi diventano “puffo/puffi” e i verbi si evolvono in “puffare” che entusiasmò Umberto Eco.
Benedetti da Umberto Eco
Essere letto e benedetto da Umberto Eco, negli anni Settanta, significava per un fumetto saltare dalla categoria di intrattenimento per ragazzi a quella di sofisticata lettura per intellettuali di sinistra non polverosi che, come diceva Eco, si dedicano a Hegel per rilassarsi e a Corto Maltese quando hanno voglia di qualcosa di serio. Il passaggio televisivo e la cura Mediaset – complici i vari lungometraggi, l’ultimo in 3D di cui sta per uscire il sequel – hanno invece riportato gli ometti blu di Peyo nel perimetro dei prodotti per l’infanzia. Eppure Umberto Eco, sulla rivista Alfabeta nel 1979, nell’articolo “Schtrumpfs und Drang” aveva colto almeno uno degli elementi più sofisticati del fumetto di Peyo: “Cosa fanno i Puffi? La domanda mi pare idiota. Naturalmente puffano. tutto il santo puffo. Puffano puffi, si puffano a vicenda, si scambiano puffi, e uno puffa l’altro. Quando uno puffa. gli altri lo puffano, e il puffo che ne segue è di solito molto puffo”. Il semiologo, che già aveva nobilitato i Peanuts e Corto Maltese, coglie un punto decisivo: il linguaggio puffico funziona proprio perché fumettistico, il lettore coglie il significato dietro le parole vuote “puffo” e “puffare” perché vede i disegni, Peyo ha creato una sinergia tutta fumettistica, non un semplice scioglilingua per bambini: “Noi comprendiamo cosa un puffo dice perché (siccome ci muoviamo in un fumetto) noi vediamo cosa fa. La lingua puffa sarebbe incomprensibile se fosse tutta scritta o tutta parlata, senza riferimento alle immagini. Limite del fumetto? Macché! Una lingua umana è parlata a fumetti. Infatti noi la parliamo nelle circostanze concrete di emissione o di enunciazione. In verità la nostra lingua umana puffa sempre”. In fondo dire “questo” o “quello” non è molto diverso da dire “puffo” : per capire di che parliamo bisogna aver chiaro il contesto.
Ma di semiologi che leggono i puffi, probabilmente, c’è solo Umberto Eco. E quindi negli anni quello che ha fatto più discutere è stato il modello di società raccontato dai Puffi. Come tutti sanno, i puffi sono omini blu, molto piccoli (“Siam alti suppergiù due mele o poco più”, diceve la sigla del cartone animato), vivono in un villaggio sperduto in una foresta, vestiti e tecnologie suggeriscono un’ambientazione medievale poco definita. Sono indistinguibili gli uni dagli altri: tutti blu con pantaloni e cuffia bianchi. Gli unici segni particolari li devono alle mansioni che svolgono: il Puffo intellettuale è Quattrocchi (che in francese è semplicemente “con gli occhiali”), il puffo forzuto ha un tatuaggio sul braccio, quello contadino ha il cappello di paglia e il rastrello, il fornaio l’apposito cappello, c’è il puffo burlone che organizza sempre lo stesso scherzo, il pacco esplosivo e così via. Unica eccezione: il Grande puffo, che ha pantaloni e cuffia rossi e la barba bianca. L’alchimista cattivo Gargamella, che è un umano normale, vuole trovare il villaggio dei puffi (che pare magicamente nascosto a chi puffo non è) per distruggerlo. Il movente di tanta cattiveria non è chiaro. Un serioso studioso di scintoismo, Antonio Soro, qualche anno fa ha pubblicato un opuscolo dedicato a “I Puffi e la vera conoscenza e la massoneria” (Edes) per sostenere che la società puffica allude alle fratellanze massoniche: il Grande Puffo è il gran maestro, le case sono a forma di amanita muscaria, fungo velenoso che l’iniziato massonico trasforma in elisir salvifico, Puffi non si nasce (a parte l’incongruo Baby puffo non c’è traccia di riproduzione) e quindi, si può supporre, lo si diventa per cooptazione, come i massoni vengono iniziati. Gargamella è un “prete-rabbino” che combatte la massoneria ma ne è anche irresistibilmente attratto. Proprio il modo in cui è ritratto il cattivo Gargamella – palandrana nera, naso sproporzionato, postura curva, propensione al complotto – ha attirato su Peyo accuse di antisemitismo: Gargamella sarebbe il tipico ebreo da complotto giudo-pluto-massonico, dedito alle arti oscure, ha un gatto che si chiama Azrael, l’angelo della morte che ricorre anche nella tradizione ebraica (in italiano edulcorato in Birba). Un professore francese, Antoine Bueno, si è guadagnato una breve celebrità sostenendo che i puffi erano addirittura nazisti ne “Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo”, pubblicato in Italia da mimesis. Ma ci vuole una ben scarsa conoscenza dei crimini nazisti per evocare una qualche somiglianza con la pacifica, perfino idilliaca, società puffica. Più interessante ragionare se quella dei puffi non evochi un’organizzazione comunista, armoniosa e senza sbavature. “I puffi, i piccoli gnomi azzurri, sono anticapitalisti. L’ho scoperto leggendo con mia figlia una loro storia ove vengono contagiati dal denaro e dal mercato. Uno di loro si fa banchiere e convince gli altri a usare il denaro. Da una comunità fondata su ‘a ciascuno secondo i suoi bisogni’, si passa al mercato e all’accumulazione della ricchezza. La storia finisce con il rifiuto del capitalismo da parte dei piccoli gnomi”, scriveva nel 2005 l’ex dirigente Fiom Giorgio Cremaschi su Liberazione, cogliendo solo un aspetto marginale del comunismo puffico.
Ogni puffo esiste solo in funzione di quello che puffa: perfino il puffo pigrone ha un suo posto nel mondo, essendo identificato come pigro non gli verrà richiesto nulla di più di quanto non possa fare. Il puffo inventore inventa, il puffo contadino coltiva la terra e così via, e la società funziona, senza denaro, senza baratto, senza tensioni. Nessuno vuole essere qualcosa di diverso di quel che deve fare. E ogni puffo sembra alludere a un’intera categorie: difficile pensare che il puffo fornaio possa produrre pane per tutto il villaggio da solo. Forse ci sono decine di puffi fornai, ma noi lettori non siamo in grado di distinguerli, perché ogni individualità è soppressa, esiste solo la mansione. Il Grande puffo riassume il concetto di comitato centrale, la sua parola è legge, ma non è vissuta come imposizione dall’alto, come tirannia, bensì come espressione di un sapere condiviso, stille della saggezza collettiva che i puffi sono in grado di raggiungere.
Dall’utopia alla vita reale”
Eppure, a leggere i volumi dei Puffi, si capisce che la lettura corretta è un’altra, non ideologica. Il meccanismo narrativo classico usato da Peyo è quello di inserire nella Utopia dei puffi qualche elemento di vita reale e vedere che succede quando l’equilibrio è turbato. I puffi sono quasi un esperimento di laboratorio, sono cavie che permettono di misurare l’effetto di ognuna di quelle variabili che nella vita reale producono i loro effetti contemporaneamente. E dunque sono educativi, aiutano i lettori più giovani a esplorare gli aspetti dell’esistenza uno per volta, senza farsene travolgere. L’esempio più chiaro è l’episodio “La puffetta”, in cui compare l’unico personaggio femminile della serie: Pufetta non è un puffo, è un prodotto di Gargamella, costruita con l’argilla e una ricetta che più maschilista non si può, “polvere di lingua di vipera, un tratto d’orgoglio, una pinta di invidia, molta ostinazione, un pugnetto di collera” e così via (Peyo, consapevole della scarsa correttezza politica, attribuisce la responsabilità della formula a un grimorio delle “edizioni Belzebù”). La puffetta in origine è mora, spettinata e brutta. La sua diversità turba l’equilibrio del villaggio ma non lo sconvolge, i puffi la accolgono senza farsi troppe domande. Ma hanno verso di lei lo stesso atteggiamento dei bambini maschi verso le bambine: la deridono, la umiliano con scherzi crudeli, il loro interesse diventa crudeltà. E allora il Grande Puffo, vedendo la puffetta infelice, ha una strana reazione: si chiude in casa con lei per alcuni giorni e, usando magie simili a quelle di Gargamella, trasforma la Puffetta in una pin up bionda e sculettante che sconvolge i puffi e distrugge il loro equilibrio. C’è perfino un processo alla Puffetta che, seppure assolta, alla fine sceglie di lasciare il villaggio consapevole dei danni prodotti (verrà poi recuperata). La storia è obiettivamente assurda: perché i puffi non si chiedono come mai esiste una Puffetta? Perché il Grande Puffo peggiora la situazione rendendo la Puffetta attraente? Perché la Puffetta stessa sembra obbedire al disegno di distruzione di Gargamella? Non ci sono spiegazioni a meno di non leggere tutto l’episodio in chiave allegorica: la scoperta della sessualità come magia, la metamorfosi come ingresso nell’adolescenza, con i puffi che si accorgono che la Puffetta non è poi tanto male, l’idea che soltanto una mente diabolica come quella di un Gargamella può aver architettato una dinamica così contorta per i rapporti tra maschi e femmine. Le storie di Peyo sono miti, affrontano i grandi temi dell’esistenza, cercando di coglierne l’essenza. Le storie recenti, prodotte dopo la morte di Peyo, sono più didascaliche, imitano l’originale ma senza quella forza sintetica, allusiva che era tipica delle origini. Come si vede da due degli ultimi volumi pubblicati in Italia dall’etichetta Black Velvet, “I puffi e il libro che tutto sa” e “Vacanze a riva del puffo”, scritti da Alain Jost e Thierry Culliford (figlio di Peyo) e disegnati da Pascal Garray. In un caso Quattrocchi si appropria di un libro magico del Grande Puffo, assente, che conosce tutte le risposte, e il puffo intellettuale – ma stupido – scopre che dalla conoscenza deriva potere. E, come Adamo dopo aver mangiato la mela dell’albero della conoscenza su consiglio del serpente, capisce che la conoscenza è pericolosa. Solo il ritorno del Grande Puffo evita il disastro. Anche l’invenzione delle ferie, con la costruzione di un villaggio vacanze, “Riva del puffo”, diventa lo spunto per la rovina della società puffica. I puffi siamo noi, ovviamente. O meglio, siamo noi depurati di tutte le complessità del nostro vivere civile.
Non è una coincidenza che il grande successo commerciale dei puffi arrivi negli anni Ottanta; merito del cartoon prodotto da Hanna & Barbera, certo, ma anche una reazione al decennio dell’edonismo. Finiti i grandi sogni di cambiamento, celebrato il funerale delle ideologie, non restava altro che misurare l’incolmabile distanza che separava la nostra vita ingabbiata da inutili orpelli dalla semplice perfezione primordiale del mondo puffo.