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 2013  settembre 02 Lunedì calendario

IL SEGRETO? HO SEMPRE IGNORATO LA PIETA’

Io ho sempre ignorato la pietà. Fin da quando mi ricordo. Tutto quello che sono, tutto quello che sono diventato credo dipenda da questa verità assoluta: ho sempre, sempre, ignorato la pietà. Anche quella nei confronti di me stesso. Per il resto c’è poco da dire: coltivo il dubbio, mi dimeno, senza darlo a vedere, dentro al fango delle mie ossessioni. Per esempio l’ossessione della bontà e l’idea che alla fin fine sia più utile per chi la esercita che per chi la riceve. Non è superba la bontà? Supponente. Se fosse un sentimento normale perché avrebbero inventato i Santi? Che poi sarebbero i professionisti, i campioni, quelli talmente superbi nell’esercizio dell’altruismo da annullare se stessi e, quindi innalzarsi, attraverso gli altari fino all’alto dei cieli. Lui del resto che pietà ha avuto di me quando mi ha abbandonato nel delirio di me stesso? Quando avevo forse nove, forse dieci anni e c’era un cielo da impazzire e dappertutto il profumo delle ginestre spinose? Che pietà quando d’improvviso mi trovai al centro del vortice, di quelli di cui si racconta nelle agiografie tutte le volte che il divino si manifesta? Oh ero innocente, così aprii le braccia per offrire la mia carne molle al fendente.
A casa, a tavola, parlai con una lingua sconosciuta, come se mi ispirasse la fiamma della Pentecoste raccontai con dovizia di particolari di cose che non avrei dovuto conoscere. E dissi di me del cielo, del profumo, del fendente. In quel preciso mezzogiorno ogni suono s’interruppe: il tempo scandito dalla pendola, lo sgocciolio del rubinetto, il frinire delle cicale, il respiro di mia madre.
Mio padre mi ascoltò, aspettò che finissi, poi tacque a lungo. “Non hai pietà” disse infine.
Io non ho mai esercitato la rettifica. Neanche di fronte all’evidenza del male, perché un tale esercizio avrebbe significato riconoscere il nemico. Quando mio padre spalancò il petto prima di parlare mi guardò con lo stesso sguardo cupo di un Pantocratore, nell’istante in cui avrei potuto fare un passo indietro, tuttavia aspettai che parlasse. Ero l’unico figlio, ero un futuro possibile, mi disse, che diventava un presente sterile. “Non hai pietà” mi disse. E io nemmeno abbassai la testa, né cercai un abbozzo di complicità nello sguardo di mia madre. Non cedetti nemmeno di fronte alla crepa sottile che si apriva nella fronte del mio vecchio. Capii che mai avrei potuto rettificare quella specie di rivelazione a cui non sapevo dare un nome, ma che pure aveva una consistenza precisa, fisica tra lo stomaco e il petto: languorosa, dolorosa, piacevole, tremenda.
Così, io e mio padre ci dicemmo tutto quanto restava da dirsi e cioè che lui sarebbe morto senza nipoti e io non sarei tornato indietro.
Io non ho mai previsto concessioni. Nei quattro anni successivi qualche volta avrei voluto ripensare a quanto detto. Ma in Seminario non c’è tempo per i ripensamenti, non per chi si è impegnato come me. Uno senza pietà, uno che non torna indietro, uno che si arma contro il Male del mondo. Corazzato e mezzo uomo, con carne e pelo, sono giunto ad una pubertà superba, del tutto attrezzato perché dovessi subire il contrappasso di rinunciare a qualcosa con strazio. Come se fossi costretto a digiunare e fossi aggredito dai morsi della fame. Così si presentò quel corpo compatto e denso di appetiti che non dovevo soddisfare. Insidiato dallo sguardo e dai sogni. Irretito dalla fisiologia. Non si può intervenire durante l’opera di costruzione della macchina; non si può consigliare più discrezione o pietire un allentamento della furia genetica. Avere un corpo che si trasforma e non potervi partecipare, non poterlo quasi toccare, è già di per sé una prova di santità , perché non si può disprezzare il mezzo con cui Lui ci ha messo al mondo senza disprezzare Lui stesso. Ma non si può amare la carne a tal punto da anteporla a chi l’ha creata. Lui non ha previsto concessioni in questo senso e, dunque, io nemmeno.
Io ho francamente esercitato l’antagonismo. Contro il corpo, come ho detto. E poi contro l’evidenza di un Universo definitivamente secolarizzato anche quando si proclama confessionale. Sono stato rabbioso come un cucciolo di mastino alla catena. Un cane troppo guardingo per essere veramente fedele. Io mi conosco, è così, esattamente dal quel pomeriggio, cinque anni fa, in campagna quando avevo nove, forse dieci, anni. Ho una passione per le storie di santità cieca, quelle di martiri che abbracciano il boia, che sorridono allo strumento di tortura, che implorano la sofferenza. E mi sono sempre chiesto se quello non fosse un modo per esercitare la vita, un modo per affermare che per quanto il corpo fosse cedevole, consumabile, mortale, restava tutto il resto, impalpabile, compatto, irriducibile, inabile alla pietà, impossibilitato a concedere, pronto a combattere.
Io non ho mai pregato per me. Ho adorato l’immagine di un cuore gonfio all’inverosimile rosso e pulsante come rossi e pulsanti sono certi frutti al massimo grado di maturazione, un attimo prima che si stacchino dal ramo e precipitino contro il piano ottuso della realtà. Certi fichi cresciuti sui rami di alberi cittadini, scuri e crepati con la polpa esposta agli uccelli, agli insetti, alle larve, che, richiamati dalla gravità, si vanno a spappolare sul cemento o sull’asfalto. Così mi immaginavo il martirio, come quel terreno incongruo, senza morbidezza, che si opponeva alla polpa matura.
Ho adorato certe corone di spine più simili all’infanzia di quanto io stesso sapessi intendere. Quei rovi dove si andavano a ficcare le more più buone, quelle più grandi, per conquistare le quali bisognava ferirsi mani e braccia. Così, così, immaginavo la dedizione, come una fiducia cieca nella ricompensa dopo il dolore. Ho pregato certo per il dolore altrui, l’ho visto segnare lo sguardo quasi fosse una realtà vera contro la finta realtà che ci circonda. Mai per me.
Ho adorato la trama del saio e la fibra del cilicio, come fanno i semplici, quelli che non sanno concepire un universo complesso, ma che, ugualmente, concepiscono complessità. Pur sapendo non sapevo. È questo. Da subito, fin da quando sapevo dare spiegazioni che io stesso non avevo elaborato. Mi muovevano, credo, una vocazione febbrile, una malattia feroce, una brama di morte, una concupiscenza precoce, una coscienza immatura, una rabbia silenziosa.
Io non ho mai coltivato la paura. Nemmeno di fronte a quel che dice il referto. Il cuore dice, è piccolo, malformato, immaturo. Non reggerà a lungo, dice. Il che dovrebbe spingermi ad accelerare il cammino, andare incontro alla fine senza rimpianti, non ho sedici anni, non ho ancora preso i voti. Bene, bene, bene: sono come quei frutti che non hanno aspettato di maturare prima di cadere, mi dico. Mi dico anche che la mia presenza di falena su questa terra dovrà in qualche modo contribuire a consolare almeno un piccolo dolore. Ma mi sento come fossi un giovane sposo rifiutato sull’altare. E mi trema la bocca. Quanto tempo ancora? Tre mesi al massimo, troppo, troppo tempo, c’è abbastanza tempo per far sì che la promessa di cieli e ginestre, di disobbedienza e lacrime, di febbre e rabbia, resti una promessa. Io non ho mai coltivato la paura. Ripeto: io non ho mai coltivato la paura!
Tre mesi ancora, temo di perdermi, di vanificare il tutto dando spazio ad un’ultima, terribile, menzogna: ho paura.