Silvia Nucini, Vanity Fair 4/9/2013, 4 settembre 2013
LA RAGAZZA CHE CERCAVO
[Gianluigi Nuzzi]
I PRIMI PASSI DI GIANLUIGI NUZZI nel mondo del giornalismo sono forse poco ortodossi, ma ugualmente rivelatori di una passione che, quasi quarant’anni dopo, ancora non mostra angoli lisi. «Prendevo il Corriere, copiavo su un foglio le notizie più importanti e facevo il mio giornalino. Lo vendevo ai miei genitori e a mia sorella. Così avevo soldi per i videogiochi, che allora stavano nei bar e bisognava infilarci la monetina».
Dal giornalino artigianale alle grandi inchieste sulla Chiesa che hanno portato a galla scandali e intrallazzi e, se non avviato, almeno accelerato (lo dico io, e lui lo ammette) la grande rivoluzione che sta attuando Papa Francesco, ci sono state altre professioni: distributore di volantini, spalatore di neve, cameriere e deejay.
«Sono felice di avere fatto queste esperienze. Mi hanno insegnato il valore del lavoro e del denaro, e mi hanno aiutato a saper parlare con tutti». Una dote che gli sarà utile quando, dal 6 settembre, inizierà la conduzione di Quarto grado e si troverà a che fare con un pubblico, quello di Rete 4, un po’ diverso da quello che aveva avuto fino a ora su La7. «Ma io penso che non ci debba essere superiorità culturale per essere informati: l’informazione è un diritto di tutti».
LA STRUTTURA DEL PROGRAMMA, che fino all’anno scorso era condotto da Salvo Sottile (ma Nuzzi ci tiene a sottolineare che era già in trattativa con Mediaset prima che lui se ne andasse), rimane «almeno per il momento» la stessa.
Una parte delle storie riguarda anche le persone scomparse, l’angoscia di chi le aspetta a casa. Una sensazione che Nuzzi stesso conosce bene. Lo racconta con pudore, anche se non è una cosa segreta. Solo che è successa tanti anni fa e quasi nessuno se ne ricorda.
«No, non è segreta, c’è anche un vecchio filmato di una puntata di Linea diretta di Enzo Biagi che lo testimonia: ci sono io, ragazzo, che lancio un appello. La mia ragazza di allora, Graziella, era scomparsa». Aggiunge: «Non lo racconto ora per fare un po’ di sensazionalismo, ma perché, studiando il programma, rivedendo i racconti delle persone scomparse, ho provato emozioni che avevo dimenticato».
Che cos’era successo?
«Una mattina, erano i primi di maggio del 1989, mi ha chiamato sua madre e mi ha chiesto se per caso Graziella avesse dormito da me. Non era rientrata e aveva lasciato un brevissimo messaggio per me, e uno brevissimo per loro, ed era sparita. Eravamo attoniti e preoccupati. Dopo aver denunciato la scomparsa, ho pensato che un modo per aiutare il suo ritorno poteva essere affiggere dei manifesti in giro per la città. Con i miei amici, di notte, tappezzammo Milano. I giornali si incuriosirono e cominciarono a parlarne. Così Biagi mi chiamò in trasmissione».
Servì a qualcosa?
«Sì, lei vide il programma e mi chiamò. Disse che stava bene. Era andata via, in Sardegna, a lavorare. Evidentemente aveva avuto bisogno di staccare, e l’aveva fatto in modo netto. La andammo a prendere all’aeroporto, ma la nostra storia era finita. In qualche settimana tutto si era concluso. Da allora ci siamo persi di vista».
È stata un’esperienza tanto difficile da superare?
«Ormai è totalmente archiviata, però quando scompare una persona a cui vuoi bene hai molte sensazioni contrastanti: sei preoccupato per la sua incolumità, ma pensi anche che abbia fatto una scelta che merita rispetto, nonostante il dolore che provoca. E poi ti chiedi se la scelta è stata libera o condizionata. È molto complicato e disperante. Capisco che cosa prova chi è a casa e non sa, penso che questo mi aiuterà a raccontare le storie degli scomparsi che tratteremo a Quarto grado».
Ci saranno anche le sue inchieste?
«L’inchiesta è la declinazione del giornalismo che sento più mia. Nel mio accordo con Mediaset è previsto anche l’avvio di un programma tutto d’inchiesta, ma più avanti, nel nuovo anno».
Si ricorda quale è stata la prima che ha fatto?
«Certo. Fu su Giuseppe Luce, un perfetto sconosciuto, ma con un patrimonio personale che, negli anni ’90, era di mille miliardi di vecchie lire. Era il più grosso immobiliarista milanese e nessuno lo sapeva. Persino i suoi dipendenti non sapevano di lavorare per lui».
La gente la cerca per sollecitare le sue indagini?
«Mi contatta gente di tutti i tipi: c’è il matto, quello che patisce un’angheria, chi ha patito un’angheria ed è diventato matto. Di questi ce ne sono tanti. E poi ci sono tante persone che mi commuovono. Ad alcuni basta anche solo un po’ di attenzione, e che gli si faccia un po’ di coraggio».
Il giornalismo d’indagine serve a cambiare le cose?
«Ne sono fermamente convinto. Chi sostiene il contrario sono i professionisti della catastrofe, quelli del “tanto poi non succede niente”, tante inchieste di Report e qualcosa di mio dimostrano il contrario».
Qual è l’inchiesta che sogna di fare?
«Vorrei avere un mazzo di chiavi con cinque chiavi di cinque archivi: quelli dei servizi segreti italiani, inglesi, israeliani, russi e americani. Lì è un mare buio, non sappiamo nemmeno che pesci ci vivono».
Violerebbe le regole per uno scoop?
«No, mai. Però, mi sono trovato lo stesso di fronte a bivi etici. Come quando il magistrato ti scioglie dal segreto professionale per conoscere l’identità di una fonte».
Ha mai avuto paura dopo aver scoperchiato tanti segreti della Chiesa, paura per la sua incolumità, intendo?
«No, mai. Sono molto contento di quello che ho fatto. E poi penso che il pericolo non sia nella morte. Il pericolo è non riconoscersi più».
In tutti i pezzi che la riguardano si legge sempre che ha cominciato a Topolino. Lo dice per vezzo?
«Non lo dico io, c’è scritto su Wikipedia, ed è vero. Comunque credo che Topolinia sia un posto molto più serio delle nostre città».