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 2013  agosto 30 Venerdì calendario

UNA SFIDA TRA CAMPIONI: NIKI LAUDA JAMES HUNT


LONDRA, 18 LUGLIO 1976
Il programma, piuttosto dettagliato, fu deciso da Giuseppe Cipriani, figlio di Arrigo Cipriani (Harry’s Bar) e futuro tycoon della ristorazione newyorkese (Rainbow Room, in cima al Rockefeller Center, ma anche altri costosi ristoranti per rockstar in stile hollywoodiano giù a West Broadway): saremmo andati insieme a Brands Hatch, la gloriosa pista a sud di Londra, per assistere al Gran Premio d’Inghilterra di Formula I.
Quell’anno Giuseppe e io ci eravamo conosciuti sedendo nella stessa classe il primo giorno di un corso d’inglese tenuto da pseudo-diplomatici polacchi (almeno così m’immaginavo allora) in un bel palazzo al 55 di Exhibition Road, a South Kensington, poco più a nord del Science Museum di Londra. Sulla targa in ottone affissa su una delle due colonne bianche che accoglievano gli studenti era inciso il nome del posto, “Ogniskio Polskie”, a cui seguiva la scritta in inglese “Polish Earth Club”. Era il 1976 e io ero solo vagamente cosciente che quell’anno avrebbe coinciso con la stagione più drammatica e rock&roll di tutta la Formula I. Non solo: il 1976 corrispondeva anche con l’esplosione in città e in tutta l’Inghilterra della cultura punk. Per noi, adolescenti, era molto più facile far battere il proprio cuore per il violento rumore dei motori della FI – che di lì a qualche giorno avrebbe rotto il silenzio della foresta dove si trovava il circuito, una ventina di chilometri a sud del limite della M25, l’autostrada che corre intorno all’immensa capitale inglese – rispetto all’esplosione culturale che avrebbe influenzato tutti gli anni a venire in città.
La mattina del mio debutto al corso d’inglese, prima di Giuseppe giunse la sua fama. Quel cognome, Cipriani, evocava anche in me, che avevo poco più di 10 anni, cocktail ghiacciati e tramonti alla Giudecca, Hemingway e battelli, bauli in cuoio costellati di adesivi sbiaditi e sublimi stuzzichini dal costo proibitivo. Non ero mai stato all’Harry’s Bar di Venezia – non ancora – ma le descrizioni che mi aveva fatto mia madre la sera prima, appreso il cognome del mio compagno di banco, erano state immaginifiche, seducenti e deliziose.
Dopo qualche giorno di lezioni, trascorsi parlando di sport e motori, arrivò l’idea di Giuseppe: «Hai voglia di andare a vedere il Gran Premio di FI che si corre domenica prossima a Brands Hatch?». L’appuntamento venne stabilito per le nove del mattino di una languida domenica inglese, senza nuvole, senza rumori e apparentemente senza automobili in Hyde Park Corner. Lì era la fermata del bus che – solo la domenica mattina – filava dritto al circuito di Brands Hatch. Sono ricordi.
Io e Giuseppe, nati entrambi nel 1965 ma in mesi differenti – non avevamo nessuna idea di quanto stava per succedere in città: di lì a un paio di mesi eventi mitici assolutamente diversi tra loro avrebbero confermato i peggiori presagi annunciati dai tabloid cittadini. Dick Hebdige (autore della mia vera prima guida adolescenziale, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, letta alcuni anni dopo e uscita in Italia per Costa&Nolan nel 1983), li ricorda così: “Nel 1976, in Inghilterra, risultò che il caldo eccessivo minacciava la struttura fisica delle case dell’intero Paese – s’incrinavano le fondamenta — e il Notting Hill Carnival, per tradizione esempio di armonia razziale, esplose nella violenza. La festa caraibica, con la gente di colore che balla felice, vivaci calipso e costumi esotici, si trasformò all’improvviso in un minaccioso raduno di giovani neri arrabbiati e di polizia in assetto anti-sommossa. È durante questa estate che il punk fece il suo sensazionale debutto sulla stampa musicale. A Londra, specialmente nei quartieri sud-occidentali e più particolarmente nei dintorni di King’s Road, cominciò a nascere un nuovo stile dalla combinazione di elementi tratti da un’intera serie di stili molto diversi tra loro. In effetti il punk rivendicava una dubbia origine: elementi derivati da David Bowie e dal glitter-rock erano tessuti insieme ad altri derivanti dal proto-punk americano (Ramones, Heartbreakers, Iggy Pop, Richard Hell), da quella fazione all’interno del pub rock londinese (1O1’rs, Gorillas) che si ispirava alla sottocultura mod degli anni ’60, dal revival degli anni ’40 di Canvey Island e dai gruppi rhythm&blues del South End (Dr. Feelgood, Lew Lewis, etc.), dal Northern Soul e dal reggae”.

Ma non c’erano solo tensioni razziali e velocissime chitarre elettriche a rendere frizzante l’aria di Londra di quel periodo. I miei ricordi di quella giornata disegnano oggi una città vista con gli occhi di un ragazzino: le strade sono deserte e Londra è fresca, in ombra, assonnata. C’erano per noi, benché lontane dal cuore della città, oltre la fascia della Greater London, giù sull’autostrada che porta a Dover, c’erano – dicevo le macchine da corsa. Correvano in un posto chiamato Brands Hatch, che a vederlo oggi – con il suo rettilineo stretto stretto, in contropendenza, e gli alberi al bordo del tracciato – sembra una follia.
Era la follia della FI di allora, dove i piloti rischiavano ogni giorno la vita. Due giorni prima di quell’emozionante domenica mattina, la sera di venerdì 15 luglio 1976 avevo seguito un varietà televisivo sulla BBC intitolato Grand Prix, Night of the Stars, presentato dall’ex campione del Mondo di FI Jackie Stewart. Buona parte dei piloti di Formula I di allora (tutti rigorosamente in smoking tranne James Hunt, che si presentò in camicia bianca e scarpe da tennis) aveva partecipato allo show, trasmesso in diretta dalla Royal Albert Hall. Quella trasmissione mi aveva affascinato: c’erano Emerson Fittipaldi detto “El Rato”, Niki Lauda detto “Super Rat”, Carlos Reutemann detto “Il Gaucho Triste”. James Hunt brillava per essere un totale outsider di quel mondo. Di lui si diceva che prima di ogni gara, entrando ai box, facesse una sosta per vomitare, tradito dalla tensione. Poi, quasi barcollando, saliva in macchina. Era decisamente un mondo rock&roll, e non a caso era soprannominato “il Circus”: i piloti fumavano Marlboro, passavano le notti nei night, si sfidavano in duelli mozzafiato dall’aeroporto al circuito con le auto prese a noleggio in ogni nazione dove andavano a correre. Praticamente tutti, tranne uno: l’austriaco Niki Lauda aveva un approccio più professionale. Figlio di una facoltosa famiglia di Vienna, che però osteggiava la sua passione, per correre si fece fare un grosso prestito bancario, garantito anche da una polizza di assicurazione sulla vita: fu lui a introdurre un modello di contratto team/pilota che poi permise ai campioni delle generazioni successive di guadagnare milioni.
I contratti che sottoponeva ai team erano infatti caratterizzati da innumerevoli postille e puntigliose richieste. Era molto esigente sugli ingaggi, era molto esigente con i suoi meccanici (non di rado si fermava con loro a lavorare, discutendo dei problemi della macchina per notti intere) e, soprattutto, andava a letto presto. Non era bello, ma aveva carisma, ed era un asso nel mettere a punto la macchina. Famosa la sua frase: «La macchina la si sente con la parte più sensibile che abbiamo: il culo».

Ed eccomi qui, una domenica mattina di parecchi anni fa, sul bus che mi porta ad assistere alla mia prima gara di Formula I. Ricordo un parcheggio polveroso, un sole bruciante e la curva Clearways, dove non esistevano posti a sedere e si stava solo in piedi. Giuseppe, a differenza mia, era in grado di riconoscere i piloti dai caschi: imparai così che James Hunt ne aveva uno tutto nero con il nome scritto in bianco e tre strisce orizzontali (una gialla, una rossa e una azzurra) e che Niki Lauda ne indossava uno tutto rosso. La giornata fu gloriosa: mi accorsi di essere di fronte a uno spettacolo violento, dove tutto andava al massimo: il rumore dei motori era mostruoso, le macchine si contorcevano e urlavano, dietro ogni curva poteva scatenarsi l’inferno. Sì. Era uno sport decisamente estremo. Quella gara fu vinta da Hunt, che poi però venne squalificato.
Quando tornai da mia madre, quella sera, sentii che dentro di me qualcosa era cambiato. A meno di 11 anni ero diventato un appassionato di auto da corsa e quella cosa mi rendeva felice: una passione da coltivare! Che gioia! Mi faceva sentire adulto.
La mattina dopo andai in edicola (ricordo che la sterlina valeva 450 lire) e comprai tutto quello che c’era sul tema. Mi ritrovavo nel cuore della stagione 1976, Lauda e Hunt erano i due grandi rivali e io volevo sapere tutto.
Fu lì che iniziai a leggere qualsiasi cosa sulla FI e, soprattutto, sulla storia di James Hunt, il pilota inglese che aveva corso fino all’anno prima con la macchina di un certo Lord Hesketh, un eccentrico aristocratico che spendeva in Formula I l’argent de poche che gli passava la madre. L’arrivo sui circuiti avveniva sempre a bordo di una Rolls-Royce Corniche con autista, l’ingegnere di pista aveva a sua disposizione una Porsche Carrera e idem James, l’unico tra i piloti. Per il Gran Premio di Montecarlo, invece, tutto il team arrivava sul Southern Breeze, lo yacht personale di Hesketh, il più grande di tutta la baia. A bordo, oltre un manipolo di immancabili belle ragazze, un Bell Jet Ranger, l’elicottero “ufficiale” del team. In più, all’aeroporto, un jet privato. I risultati in pista? Un mezzo disastro.
La squadra, però, compensava dando molto spettacolo nel retro dei box: la Hesketh aveva una “entertainment division”: tra i meccanici c’era anche uno specialista di cocktail, uno chef addetto alla preparazione del bacon croccante e delle aragoste da offrire agli amici, un cameriere si occupava dell’argenteria sui banconi di lavoro del box. Le riunioni tecniche si tenevano nella tenuta di Lord Hesketh: mentre Hunt e gli ingegneri discutevano delle caratteristiche tecniche della macchina, lui sparava al piattello con il suo fucile. Era questa la FI che si affacciava alla stagione 1976: mentre i team più seri cercavano la strada per il professionismo, altri team – come quello di Lord Hesketh – cercavano il romanticismo e la bella vita. Era naturale che quell’attitudine rock&roll andasse a scontrarsi con il professionismo austriaco “alla Lauda”: i due piloti erano ancora novizi di quel mondo (Lauda si avviò alla massima Formula a cavallo tra il 1971 e il 1972, Hunt appena un anno più tardi, nel 1973), ma nella stagione 1975 l’austriaco raggiunse i vertici vincendo il Mondiale con la Ferrari, mentre Hunt affrontava il campionato con la “brigata” di Lord Hesketh.
Alla fine del 1975, il gaudente Hesketh scoprì all’improvviso di essere quasi sul lastrico. A fine stagione, l’avventura del team “privo di sponsor” Hesketh chiuse per sempre e James Hunt si ritrovò senza una macchina per l’anno successivo, il 1976. Poche settimane prima dell’inizio del campionato, il brasiliano Emerson Fittipaldi, dalle basette folte e scure, decise di mollare la fortissima McLaren (con cui aveva vinto il Mondiale del 1974) per costituire una scuderia tutta sua, la Copersucar, finanziata da una azienda di zucchero carioca. La McLaren era senza pilota, James Hunt senza macchina: in pochi giorni si celebrò il matrimonio inatteso e Hunt si presentò all’inizio del Mondiale ’76 nella quasi totale indifferenza: la Ferrari 312T2, con Lauda fresco campione del mondo al volante, era davvero imbattibile. Niki vinse cinque volte nelle prime sei gare, James festeggiò la sua seconda vittoria in FI nel Gran Premio di Spagna fino a che, il 1° agosto del 1976, si arrivò sul terribile tracciato del Nürburgring Nordschleife, 23 pericolosissimi chilometri in mezzo alla foresta tedesca vicino a Coblenza. Alla vigilia della gara, Lauda aveva 61 punti in classifica, 31 di vantaggio sul secondo, Jody Scheckter. James Hunt? Solo 26.

Domenica 1 agosto 1976, Nürburgring, ore 13.45: un piccolo ritardo dovuto a un problema tecnico durante il giro di riscaldamento aveva lasciato il tempo al cielo di trasformarsi da grigio chiaro in una pesante e cupa lastra di piombo. Il vento, che soffiava da nord-ovest, accompagnò le macchine del Gran Premio (successivo a quello a cui avevo assistito io a Brands Hatch) che si disponevano lungo il rettilineo, pronte per la partenza. Oltre i guardrail che separavano i box dalla striscia d’asfalto, i meccanici iniziarono a preparare l’occorrente per un’eventuale veloce sostituzione delle gomme da asciutto con quelle da bagnato. Alle 14 – circa mezz’ora dopo la partenza prevista – i commissari di percorso esposero i cartelli con la scritta “WET RACE” e la corsa fu dichiarata ufficialmente “bagnata”. Non che fosse una pioggia vera; come descrivono in maniera molto efficace gli inglesi con il termine “pouring”, dal cielo si spandevano delle goccioline quasi invisibili d’acqua polverizzata. In più, uno squarcio nel cielo, all’orizzonte, lasciava intravedere al pubblico e ai piloti una finestra di un azzurro particolarmente intenso. La situazione, quindi, era in probabile evoluzione.
Questo diede la possibilità ai piloti d’interpretare le condizioni metereologiche in modi differenti. Alcuni, come Jochen Mass, pilota della McLaren e compagno di squadra di James Hunt, decisero di adottare una strategia rischiosa: partire comunque con le gomme da asciutto sperando che la situazione – volgendo al bello – obbligasse gli altri a fermarsi per il cambio gomme. Jochen non fu l’unico a tentare l’azzardo. Anche Niki Lauda decise di tenere le gomme “slick”: avrebbe percorso i primi chilometri guardingo e poi, man mano che la pista, auspicabilmente, si fosse asciugata, avrebbe potuto aumentare il proprio ritmo lanciandosi all’attacco della testa della corsa. Il Gran Premio prese il via. Clay Regazzoni, il compagno di Lauda in Ferrari, guadagnò la testa di quel mucchio selvaggio e multicolore che piombò sulla prima curva. Dietro di lui, Jacques Laffite, James Hunt, Jochen Mass, Carlos Pace e Jody Scheckter. I miei nuovi idoli si davano battaglia sul più micidiale circuito di tutto il Mondiale, 22 chilometri e 835 metri zeppi di curve. Al secondo dei 14 giri in programma, solo 14 monoposto su 26 passarono il traguardo. Affacciati al muretto dei box, i responsabili dei team cominciarono un nervoso conto alla rovescia che verificò “la scomparsa” di ben 12 macchine in un solo giro. La lista dei “missing in action” comprendeva Lauda, Pace, Stuck, Jarier, Lunger, Merzario, Amon, Ertl, Edwards, Watson, Fittipaldi e Pesenti-Rossi. Quale terribile evento era accaduto? Dalle testimonianze dei presenti sulle varie curve, l’incidente di quel giorno poteva essere riassunto così: Niki Lauda e la sua Ferrari 312 T2/76, equipaggiata come detto con gomme slick e quindi adatte a un asfalto asciutto, mostrarono ripetute volte di aver problemi di aderenza sul bagnato, sbandando vistosamente. Dopo qualche chilometro di pista umida (e di muschio ai lati del tracciato, come racconta a RS l’ingegner Mauro Forghieri), l’asfalto improvvisamente presentava un tratto più asciutto, dopo una piccola discesa che portava alla curva Bergwerk: solo una piega, facile da affrontare in condizioni normali, non una vera e propria curva. Ma per motivi che non furono mai davvero chiariti, Lauda in quel punto perse il controllo della Ferrari: le due ruote di sinistra andarono a sfiorare il cordolo, e il sedere della Ferrari – in uscita di curva – aumentò marcatamente l’iniziale e naturale sovrasterzo.
A quel punto. Lauda si trovò con la macchina sbandata e d’istinto non potè fare altro che correggere con un repentino controsterzo. Puntò allora le due slick anteriori verso il bordo della pista, all’esterno, mentre nello stesso istante, in un lampo, i pneumatici posteriori riacquistarono aderenza e scagliarono la coda dell’auto dalla parte opposta, forzando il muso della monoposto a puntare paurosamente verso il guard-rail e la roccia a bordo pista. Ormai senza più alcun controllo, Lauda e la sua Ferrari andarono a fracassarsi frontalmente una prima volta, per poi rimbalzare in pista, girare due volte in senso orario su se stessi e fermarsi in mezzo al tracciato. L’auto, con le ruote divelte, aveva la fiancata sinistra squarciata. Una ferita tecnica pericolosissima, perché lasciava il serbatoio della benzina troppo esposto. Nell’impatto, Lauda era stato sottoposto a un urto violentissimo, tanto che il casco era volato via, lasciando la testa protetta solo dal passamontagna ignifugo. La Ferrari, ormai afflosciata e semidistrutta, con un boato s’incendiò e, ferma al centro del tracciato di gara, rimase in balia degli altri concorrenti. Guy Edwards, con la Hesketh 3o8-D sponsorizzata dalla rivista per adulti Penthouse e dalle cartine per sigarette Rizla+, frenò disperatamente riuscendo a infilarsi nell’unico spazio rimasto tra i rottami della Ferrari e il guard-rail. Brett Lunger, un eroe della guerra del Vietnam prestato alle corse di FI, tentò di passare per lo stesso pertugio, ma non ci riuscì. Scivolando sulla striscia di olio mista a benzina lasciata dalla macchina di Lauda, s’infilò dentro quella palla infuocata della Ferrari, fracassandosi frontalmente e spingendo l’auto di Lauda parecchi metri più indietro. Il resto della dozzina di macchine che mancavano all’appello arrivò più lentamente, riuscendo a fermarsi prima di quell’inferno.
La Ferrari di Lauda, a questo punto completamente avvolta dalle fiamme, fu assaltata dagli altri piloti coinvolti nell’incidente e rimasti illesi: Lunger, Ertl, Edwards, e Merzario cercarono d’intervenire. Tra le lingue di fuoco s’intravedeva Lauda, senza casco, che si sbracciava disperatamente. Ertl s’impadronì di un estintore, mentre Merzario tornò a gettarsi tra le fiamme riuscendo a far scattare il meccanismo di sblocco delle cinture di sicurezza a sei punti. Brett Lunger si lanciò sul corpo di Lauda riuscendo a estrarlo quasi per metà dall’abitacolo. A quel punto, inciampò in qualche cosa, portando con sé il corpo di Niki: finirono tutti e due a terra, di fianco ai rottami, alla plastica e alla gomma fusa e qualcuno (forse Merzario, forse Ertl) riuscì a trascinarli entrambi lontano dalle fiamme. Incredibilmente Lauda si alzò – sotto shock? una reazione nervosa? – e a detta dei testimoni compì una decina di passi, prima che i suoi compagni riuscissero a fermarlo e a convincerlo a sdraiarsi nuovamente a terra, tra l’erba umida e l’asfalto bagnato di benzina. Cautamente gli aprirono la tuta ignifuga (in alcune parti ormai carbonizzata) mentre Brett Lunger ed Emerson Fittipaldi, tastandogli il corpo, cercarono di capire se – oltre alle devastazioni compiute dal fuoco – si fossero verificate fratture importanti. L’esito fu negativo. Era chiaro: i danni maggiori erano legati alle estese ustioni alla testa e alla faccia, come testimoniavano le tute di Merzario e Lunger imbrattate di sangue proveniente dalle ferite aperte sul volto di Niki. Arrivò un elicottero e Lauda venne trasportato alla vicina Clinica Universitaria di Mannheim, dove il primo bollettino descrisse una situazione grave, ma non particolarmente drammatica. Qualche ora dopo le cose peggiorarono drasticamente e le dichiarazioni dei medici si fecero davvero preoccupanti. Il problema maggiore era legato ai terribili fumi prodotti dalla benzina, dalle gomme e dalle plastiche bruciate che Niki aveva respirato durante il rogo, oltre ovviamente alle ustioni di secondo e terzo grado su tutta la testa e sulle braccia, che avevano iniziato a soffocare il corpo del pilota. Fu chiamato un prete per l’estrema unzione e nell’ambiente della FI si diffuse la voce che Lauda non sarebbe sopravvissuto.
Enzo Ferrari, a quel punto, fece un gesto che Lauda – in seguito – non gli perdonò mai: saputa la situazione, Ferrari contattò il pilota argentino Carlos Reutemann per affidargli la macchina di Lauda. Il Campione del Mondo stava lottando tra la vita e la morte e la scuderia Ferrari si preoccupava di trovare un sostituto. Vegliato dalla moglie Marlene, Lauda – con stupore di tutti – superò la notte. James Hunt, che intanto aveva vinto quel drammatico Gran Premio di Germania, mandò a Lauda un telegramma, lontano dai soliti “Torna presto tra noi”. Gli scrisse – parole sue – «qualcosa di non particolarmente carino, anche se non ricordo esattamente cosa. Sapevo che se Niki si fosse arrabbiato, si sarebbe messo a combattere ancora più tenacemente».
Mercoledì mattina cominciò a respirare senza l’ausilio delle macchine e il venerdì le cose migliorarono ulteriormente. Tornò a essere pienamente cosciente e, in mezzo a dolori atroci, decise di farsi trasferire in una clinica specializzata nella cura di grandi ustionati. Passarono esattamente quattro settimane: sfigurato in volto, ferito nell’animo, avvolto dalle bende che gli coprivano le ferite alla testa, il 10 settembre 1976 Niki Lauda si presentò ai box di Monza con la volontà di prender parte alla corsa. Aveva tutti contro: i medici, i tecnici della Ferrari, la moglie. Tutti. Era troppo presto, le ferite ancora aperte, il fisico debilitato, ma nulla potè contro la volontà di Lauda. «Devo correre». Le foto del viso di Lauda che pubblichiamo in queste pagine, durante la conferenza stampa della gara, la dicono tutta sulla forza di volontà del pilota. Era ancora primo nella classifica mondiale, con 14 punti di vantaggio su James Hunt. Il campione ferito, con il viso devastato dalle fiamme, contro l’hippy playboy che non perdeva occasione di divertirsi con gli eccessi. Un perfetto finale di stagione per l’annata più rock&roll della storia della Formula I. Ed ecco l’ultima gara, in Giappone, con Niki ancora primo in classifica: tre i punti di vantaggio. Al momento della partenza, ancora pioggia, che poi si trasformò in diluvio. Visibilità zero: nella psiche di Lauda si fece avanti la paura, dopo mesi di sofferenze. Dopo un giro, la volontà di ferro del pilota austriaco cedette di schianto, parcheggiò la macchina ai box e, con tutta onestà, Niki disse a Mauro Forghieri, direttore sportivo della squadra: «Ho avuto paura». La Ferrari cercò di trovare una scusa tecnica da dare alla stampa, per proteggere il pilota. Ma Lauda insistette: «Dite solo che ho avuto paura». Dopo una gara infernale, James Hunt si classificò terzo e, per un solo punto di vantaggio, si aggiudicò il Mondiale.
Era il 24 ottobre 1976, James aveva 29 anni. «In un mondo perfetto», disse, «io e Niki avremmo condiviso il titolo. Ma è impossibile. Il titolo di Campione del Mondo è solo un pezzo di carta. Ora ho paura che questa cosa non sia come me l’ero immaginata. Temo una gioia temporanea».
Per James Hunt iniziò un inverno folle di festeggiamenti, serate mondane, impegni con gli sponsor, viaggi in aereo privato e vita luccicante, inarrestabile e molto veloce. Troppo veloce.
La battaglia finale con Lauda non aveva incrinato l’amicizia tra i due, che continuarono a frequentarsi. Lauda raccontò anni dopo: «Durante le prove in Francia, nel 1977, io e James decidemmo di andare a passare la serata a Salisburgo con il mio jet privato. Lì ci divertimmo molto, bevemmo e fumammo forse un po’ troppo... Il mattino dopo, all’aeroporto, James si presentò con una bellissima fräulein dall’aria decisamente esausta. Arrivati al circuito, iniziammo le prove. Dopo un po’, la McLaren di James smise di passare davanti ai box. Fu ritrovata parcheggiata a bordo pista, con quel simpatico stronzo di Hunt... addormentato».
PS. 1: Niki Lauda si ritirò dalle corse nel 1979 per dedicarsi alla sua compagnia aerea “Lauda Air”. Tornò in FI con la McLaren nel 1982 e nell’84 vinse il suo terzo titolo mondiale di FI.
P.S. 2: James Hunt si ritirò dalle corse nel 1979. Rimase nell’ambiente come commentatore per la BBC, ma nel 1993, a 45 anni, fu stroncato da un attacco di cuore mentre si trovava nella sua casa di Wimbledon.