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 2013  settembre 04 Mercoledì calendario

AL FRONTE CON I RIBELLI DI ALEPPO “OBAMA VILE, ASSAD CI MASSACRERÀ” E ISRAELE PROVA I MISSILI IN MARE

DAL NOSTRO INVIATO ALEPPO — È sempre più difficile orientarsi in città, perfino per chi c’è nato, perché ormai le strade si somigliano tutte, con l’asfalto arato dalle bombe e i palazzi sventrati dagli attacchi aerei. La guerra ha ridisegnato la geografia di Aleppo: cancellando le asimmetrie e le differenze tra quartieri l’ha resa un unico ammasso di macerie. «A volte, per raccapezzarmi devo tenere a mente la cronologia delle distruzioni. Vede quel grosso edificio che sembra scapitozzato da una ciclopica motosega? Fino a due mesi fa, prima di essere centrato da un Mig del regime, era due piani più alto », spiega Murhaf al Issa, 34 anni, la barba ben curata e l’uniforme impeccabilmente stirata. Ex professore di biologia e musulmano moderato, Murhaf comanda la piccola brigata dell’Esercito libero siriano alla quale ci accodiamo per raggiungere la linea del fronte.
Per raccogliere i pareri dell’opposizione alla vigilia di un possibile raid punitivo franco-americano, andava probabilmente bene anche la turca Antakya, a una decina di chilometri oltre il vicino confine, perché è anch’essa piena di aleppini in fuga dalla guerra civile. Diverso è tuttavia sentire l’opinione di chi è rimasto a combattere, di chi non è ancora voluto scappare e che da più di un anno vive nel terrore dei razzi sparati dai caccia e dagli elicotteri da combattimento. «Come potremmo fidarci di quel codardo di Obama?», si chiede Murhaf. «Ha prima permesso che il presidente Bashar al Assad ci massacrasse, senza mai fornirci neanche una cartuccia. E continua a tentennare anche adesso, come un leader senza né cuore né cervello, dopo che il regime ha ammazzato più di mille persone usando i gas». La notizia di un test missilistico appena effettuato nel Mediterraneo da Stati Uniti e Israele, un segnale ai Paesi del Medio Oriente in vista di una rappresaglia contro Damasco, non smuove il comandante dalle sue certezze. «È tutta scena: l’attacco americano, sempre che si produca, non farà cadere Assad».
Avvicinandosi al centro di Aleppo, le strade si fanno più strette e più buie, si direbbe che i tetti delle case quasi si tocchino. In questo reticolo urbano molte viuzze sono ostruite con barricate di fortuna o sacchi di sabbia. «Siamo ai confini della città vecchia. Qui i soldati del regime sono così vicini ai nostri uomini che tra loro possono insultarsi da una finestra all’altra o da un vicolo all’altro. È così che ci siamo accorti dell’arrivo dei miliziani di Hezbollah, perché loro le parolacce le urlano con l’accento libanese», racconta Murhaf.
Penetriamo nell’androne di un palazzo abbandonato dai suoi residenti originari. Nel sottosuolo, al fresco di una stanza dal soffitto a volta, riposa una mezza dozzina di combattenti nonostante il fastidioso sfrigolio di una radiolina da campo. In lontananza, dalle prese d’aria, si ode crepitare una mitragliatrice. Ma qui tutto è tranquillo. «Ci alziamo tardi al mattino, noi e loro», scherza Murhaf.
A sentire ancora parlare di Obama e degli Stati Uniti, il comandante storce il viso. Poi, guardandosi le scarpe, riprende: «L’America e, più in generale, l’Occidente erano la nostra grande speranza. All’inizio della rivoluzione, quando i carri armati di Damasco sparavano sui manifestanti eravamo certi che qualcuno sarebbe intervenuto. Invece nulla. Lo stesso è accaduto lo scorso anno, dopo che il presidente statunitense ha finalmente riconosciuto l’opposizione come la sola voce legittima della Siria. Manifestando simpatia per i ribelli, Obama ha di fatto peggiorato le cose, perché la sua è una simpatia solo di facciata, con cui ha consolidato il morale del regime e indebolito l’entusiasmo dei rivoluzionari, i quali ancora aspettano l’arrivo di aiuti concreti che probabilmente non vedranno mai».
Murhaf non cambia parere neanche di fronte all’obiezione che Washington è ormai costretta a intervenire contro Assad e che, dopo aver chiesto al Congresso un voto in tempi rapidi per dare il via libera al raid, Barack Obama si è detto fiducioso di una decisione favorevole. «Bombarderà qualche deposito di armi. Poca roba. E lo farà soltanto per salvare la faccia. Vuole sapere quali saranno le conseguenze? Che una volta uscito indenne, il regime opererà una vasta repressione contro il suo popolo, più feroce e più ampia di quella in atto da due anni e mezzo».
È verosimile che se gli insorti fossero tutti come Murhaf, il presidente Obama avrebbe già fornito all’opposizione siriana tutte le armi richieste. In questa guerra dove da un lato c’è un dittatore sanguinario e dall’altro una ribellione sempre più infiltrata da elementi qaedisti, un combattente come questo ex professore di biologia, che non ostenta la fascia della jihad sulla fronte ma veste una marziale divisa color cachi, ispira fiducia. Dice ancora Murhaf: «Gli islamisti sono ottimi soldati, perché combattono animati dalla fede. Ma da qualche mese, i più estremisti di loro, hanno deciso di aprire un nuovo fronte contro l’Esercito libero siriano. Abbiamo perso qualche battaglia, e alcuni dei nostri generali sono stati uccisi. Infatti, oltre che alla forza del loro credo, i jihadisti dispongono anche di armi molto efficaci, perché sono foraggiati dall’Arabia saudita e dalle altre monarchie del Golfo».
Sulla strada verso il confine turco, il pick-up sul quale viaggiamo viene continuamente superato da pullmini, camion o auto carichi di bagagli. Sono quei disgraziati che da Aleppo o dai villaggi che circondano la seconda città del Paese vanno a ingrossare le fila dei profughi in Turchia. Una volta, la maggior parte di questi fuggiaschi era composta da donne e bambini, perché i loro mariti e i loro padri rimanevano a difendere le case. Ma oggi che molte case sono state distrutte scappano tutti.
«Anche perché la strategia dei lealisti è sempre la stessa: consiste nel bombardare sistematicamente ogni quartiere, ogni strada, ogni casa nelle mani dell’Esercito libero siriano, finché non si ritiri da Aleppo. Per questo ci sono aeree della città sotto un continuo diluvio di missili, e al regime non gliene importa nulla se quei quartieri, quelle strade e quelle case sono pieni di civili inermi», spiega Murhaf.
Avvicinandoci alla Turchia il traffico degli sfollati s’infoltisce. Al valico di Kylis, molti di loro arrivano a piedi, carichi di coperte, taniche d’olio e scatolame da poter rivendere oltre confine. Il numero dei profughi del conflitto siriano ha superato quota due milioni, decuplicato in appena un anno. Questa cifra agghiacciante, ma scontata proviene dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. «In Siria c’è un’emorragia di donne, bambini e uomini che attraversano la frontiera spesso con nient’altro che i vestiti sulle loro spalle», si legge in una nota dell’agenzia che ricorda come al 3 settembre 2012 i profughi siriani erano “soltanto” 230.671. Sempre ieri, un’altra organizzazione umanitaria, l’Unicef, ha diramato un altro dato altrettanto raccapricciante: «Circa 1,9 milioni di studenti siriani (tra il 1° e il 9° anno) ha lasciato la scuola dell’obbligo nell’ultimo anno scolastico, si tratterebbe del 39% dei 4.860.000 studenti registrati, secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione. Oltre 3.000 scuole sono state danneggiate o distrutte e oltre 930 sono utilizzate come rifugi per sfollati». Con la provincia di Idlib, quella di Aleppo è la più colpita dalla crisi. Qui, le bombe che piovono dal cielo hanno distrutto più di mille scuole.