Federico Rampini, la Repubblica 3/9/2013, 3 settembre 2013
ILCAPITALISTA RILUTTANTE IL SOGNO DELLA RICCHEZZA NELL’ASIA GLOBALIZZATA
La corsa a costruire grattacieli sempre più alti, mostruosamente elevati anche rispetto a quelli di Manhattan, dilaga dalla Turchia alla Cina. Gli occidentali ansiosi scrutano i sintomi precursori di una nuova bolla speculativa. Ma gli scricchiolii di crisi che da mesi investono le nazioni emergenti, rischiano di fare velo alla comprensione del fenomeno più profondo: per gran parte dell’umanità, il grande evento del XXI secolo si chiama urbanizzazione. Ha una portata così straordinaria che non bastano gli economisti e i sociologi, gli architetti e gli ambienta-listi, per misurarne gli effetti: ci sono cose che solo l’arte sa raccontare. Il giovane scrittore indiano Siddharta Deb in passato ha lamentato che la globalizzazione si è rivelata per lo più una mediocre ispirazione per la letteratura. Ma le cose stanno cambiando. In Italia c’è l’esempio di Edoardo Nesi che ci ha raccontato la globalizzazione vissuta dai perdenti (il tessile di Prato). Mohsin Hamid si rivela uno dei più acuti e affascinanti narratori dalla prospettiva opposta: i nostri inseguitori, i popoli che ci incalzano, ci imitano, talvolta ci odiano, e comunque sono spinti da una feroce ansia di migliorarsi. Ho scritto “migliorarsi”, non solo migliorare la propria vita: capirete il perché.
Hamid è un personaggio emblematico di quest’epoca. Nasce a Lahore in Pakistan. A 42 anni ha già collezionato diverse vite. Ha abitato a Milano, e a Manila nelle Filippine. Ha studiato nelle migliori università americane, Harvard e Princeton: in quest’ultima ha avuto come maestri Joyce Carol Oates e Toni Morrison. Ha lavorato come consulente aziendale a New York. E nonostante abbia assaggiato tutte le “offerte” dell’Occidente, ha scelto di tornare a vivere nel turbolento Pakistan. Il suo primo romanzo, Il fondamentalista riluttante del 2007 (decisamente migliore rispetto alla versione cinematografica diretta da Mira Nair), è stato un trionfo di critica e di pubblico: uno squarcio nella difficile relazione tra l’America e l’Islam dopo l’11 settembre.
La sua nuova opera è un altro exploit, un romanzo importante che si dissimula dietro uno stile leggero, dissacrante, talvolta surreale.
Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente (Einaudi, traduzione di Norman Gobetti, 150 pagg., 17,50 euro), fedele al titolo, si “traveste” nello stile della manualistica americana che insegna le regole del successo, della felicità, dell’amore. Un filone inesauribile, che va dal classico Come trattare gli altri e farseli amici scritto da Dale Carnegie nel 1936, fino ai vari Smettere di fumare è facile se sai come farlo.
Il riferimento a questo filone editoriale è un indizio. Non solo è la chiave originale del romanzo, ma lo collega implicitamente a un elemento dell’American Dream: la fiducia in un futuro migliore, che passa anche attraverso la costruzione di se stessi. Hamid organizza i capitoli di questa storia come altrettanti “step”, consigli pratici verso l’arricchimento, con titoli che sembrano banalmente descrittivi. Uno, trasferisciti in città. Due, fatti una cultura. Sei, mettiti in proprio. Alcuni nascondono ben altri sviluppi (Tre, non innamorarti), o alludono a realtà inquietanti (Sette, tieniti pronto a ricorrere alla violenza), o a un finale tutt’altro che “happy” (Dodici, prepara una strategia d’uscita). Sette passi conducono all’opulenza, arrivando al nove si precipita: siete avvisati.
Settant’anni di vita del protagonista, un autentico Bildungsroman nella tradizione ottocentesca, l’affresco di un’epoca storica (la nostra, ma raccontata dal punto di vista della maggioranza della popolazione umana), di una classe sociale, naturalmente intrecciato con vicende sentimentali, e il percorso di una ragazza non meno avventurosa e arrivista del giovane maschio protagonista. Il primo cambiamento e più radicale che qui viene messo in scena con maestrìa è proprio lo sradicamento dalla campagna, l’esodo verso la città. Non è solo un cambiamento di status socio-economico o uno shock culturale. Quel che Hamid racconta è il passaggio dal clan, dall’identificazione con una comunità umana vasta, al ritrovarsi come nucleo familiare sperduto nella megalopoli anonima, «cinque individui come le dita di una mano, minuscole aggregazioni rispetto ai branchi di pesci o agli stormi di uccelli o alla tribù». La metamorfosi vissuta attraverso la dinamica familiare è una trasformazione esplosiva. I legami delle relazioni estese, tutto ciò che il mondo rurale significava in termini di stabilità, sicurezza, e naturalmente anche condizionamento, pregiudizio, repressione e tabù, lasciano il posto all’ansia, alla produttività, a nuove e ignote potenzialità.
Romanzo dell’urbanizzazione, di una storia che riguarda un miliardo di esseri umani: basta soffermarsi sulla vicenda del “Premier Housing”, il business costruito per offrire alloggi di qualità, dove il Progresso con la maiuscola significa un gruppo elettrogeno che ti salva dai blackout continui. Questa è realtà quotidiana, nelle potenze emergenti come l’India e tanti altri giganti demografici. È una realtà che appartiene anche ad un nostro passato non lontanissimo di stenti e privazioni, di pregiudizi e di violenze, che abbiamo dimenticato troppo in fretta: è l’amnesia che oggi ci fa teorizzare le virtù della “decrescita” anche di fronte a quel miliardo di esseri umani lanciati con rabbia verso un benessere primordiale.
Nell’odissea travolgente del protagonista – sempre apostrofato con il “tu” come il lettore a cui si rivolgono i consigli pratici – c’è posto per un flirt con la religione integralista. C’è ampio spazio per la truffa ignobile – il primo scalino verso il business è la vendita di acqua minerale taroccata, acqua di rubinetto versata nelle bottiglie che i ristoranti gettano via. L’accumulazione primitiva del capitale segue regole simili a quelle del Grande Gatsby. In un’intervista al New York Times, Hamid si è definito «un animale politico, interessato a come il branco umano va a caccia, distribuisce il cibo, cura i suoi feriti». Il suo Pakistan, così diverso dalle caricature unidimensionali che lo riducono a santuario di Al Qaeda, è un magnifico osservatorio dell’avventura umana.