Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 03/09/2013, 3 settembre 2013
IL CREDO DI CAPITINI CENSURATO DALLA CHIESA
Chissà che cosa direbbe il «francescano» Aldo Capitini di papa Francesco. Certo sarebbe più vicino alle sue ragioni, alla sua religione, alla sua sostanza umana che a quelle di Pio XII, al quale il pensatore eterodosso, filosofo e attivista della nonviolenza e molto altro, nel 1957 dedicò un libro destinato a fare scandalo e a essere messo al bando dalla Chiesa. Si intitolava Discuto la religione di Pio XII e viene ora riproposto dalle Edizioni dell’Asino. La prosa affabile e razionale di Capitini (nato a Perugia nel 1898 e morto nel 1968) offre al lettore di oggi una enorme quantità di argomenti, a parte quelli strettamente teologici, che andrebbero riletti alla luce del nuovo dialogo aperto dalla Chiesa di Francesco.
Ciò che viene rimproverato a papa Pacelli è di professare una religione «fondata sul dividere le persone tra loro», di escludere il colloquio, di «ragionare senza un comune linguaggio» con persone di diversa formazione, di utilizzare una logica della chiusura e di muoversi semmai verso gli altri solo «per attrarli ai suoi dogmi». Accuse durissime dietro quel tono pacato e privo di accenti polemici.
Capitini, accusato a sua volta (anche dagli amici) di essere testardamente ottimista, crede nella «buona volontà interiore» che permette di comprendere le cadute e i «diversi modi che possono esserci per realizzare la moralità». L’eccesso di «mitologia, istituzionalismo, sacralità» insito nel magistero di Pio XII non poteva piacere al teorico della nonviolenza, che aveva fondato le sue «persuasioni» sulla resistenza passiva gandhiana e su Francesco d’Assisi, sulla necessità di «spendere la propria vita giorno per giorno», costruendo «una grande cassa di risonanza, di solidarietà e di azione, anche per utilizzare atti generosi di pochi».
Attualissima lezione politica di un disobbediente civile dal temperamento risorgimentale, più adatto, come scrisse il suo amico Gianfranco Contini, a «elaborare la resistenza alla tirannia che ad amministrare il grigio quotidiano». Era il 1985 l’anno in cui il filologo, a Pisa, esortava così alla riscoperta di Capitini: «Ma si vorrebbe che l’Italia postfascista serbasse qualche maggior memoria dell’antifascista perugino e si lavasse dell’avara ingratitudine di troppo silenzio attorno a lui». Esortazione che resta valida, specie in questi giorni in cui si riparla di guerra e di pace. Non c’è molto, di Capitini, che appaia datato. Del resto, tra le tante osservazioni illuminanti che possono risuonare utilmente all’orecchio del lettore odierno, a pagina 92 del volumetto contro Pio XII, troviamo anche questa: «L’esperienza della mia vita mi ha insegnato che ci vuole il vecchio e il nuovo, il vecchio rivive nel nuovo, il nuovo mette alla prova se stesso utilizzando il vecchio. Non dico che tutto stia qui, ma è, tuttavia, una buona regola».
Paolo Di Stefano