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 2013  settembre 03 Martedì calendario

LA FINANZA (CON INGANNO) CHE DANNEGGIA I CITTADINI

«Per un nuovo inizio bisogna rimettere la finanza al proprio posto, la causa principale della crisi infatti è stata proprio il non svolgere il proprio ruolo. La finanza deve essere sussidiaria alle imprese». Enrico Letta apriva così il suo discorso al meeting di Rimini. Ma come si fa a rimettere la finanza al proprio posto? Intanto
in un Paese dove l’inglese lo conoscono
in pochi è meglio parlare di «credit crunch», o dire «le banche non fanno credito»? Sempre a Rimini, Corrado Passera, in veste di ex ministro o di ex banchiere, dichiara che le imprese devono farcela senza il supporto delle banche, che invece a loro volta sono supportate dal denaro dei risparmiatori e dalla Bce. Servono idee per trovare posti di lavoro e non distruggere quelli che ci sono.
Servono idee anche per risolvere i problemi di chi con la finanza è riuscito a far deragliare l’economia reale e la vita dei cittadini.
All’onorevole Giulio Tremonti le idee non mancano, e senza tanti clamori il 15 luglio scorso ha presentato il seguente disegno di legge che andrà in discussione con la riapertura dei lavori parlamentari: «Onorevoli senatori, i contratti cosiddetti derivati sono tra i principali fattori di lievitazione della massa finanziaria globale. E, per questa ragione, sono tra i principali originatori della crisi finanziaria globale ancora in atto. Se introdotta, la presente normativa priverebbe sostanzialmente i cosiddetti strumenti derivati della componente speculativa». Poi disserta sui derivati buoni (un’assicurazione che ti protegge da rialzi eccessivi dei tassi di interesse) e quelli cattivi (che scommettono sui fallimenti degli Stati) e che hanno trascinato nei guai le imprese e gli enti locali.
Ma non fu proprio un decreto di Tremonti nel 2003 ad autorizzare gli enti locali a procurarsi risorse stipulando questi contratti senza misure di controllo? Da allora via libera a banche, prevalentemente estere, che hanno allettato funzionari pubblici che nella migliore delle ipotesi non capivano cosa stavano firmando, e in cambio di un po’ di cassa (speriamo solo per l’ente) hanno strangolato per i secoli a venire Comuni, Province e Regioni.
Il divieto
di Padoa-Schioppa
Quando il bubbone è esploso il ministro dell’Economia era Tommaso Padoa-Schioppa, il quale li ha sostanzialmente vietati in attesa che si promulgasse un regolamento del Mef che obbligava le banche a dichiarare in anticipo le probabilità che il derivato potesse essere utile ai conti dell’ente.
Come? Attraverso gli scenari probabilistici ideati dall’ufficio analisi quantitative della Consob all’epoca della presidenza di Luigi Spaventa. Poi è caduto il governo (2008), Tremonti è tornato ministro, ed ha bloccato il regolamento, oltre ad aver sostanzialmente eliminato l’informativa contabile dei residui passivi dal bilancio dello Stato. Per questa ragione la somma esatta dell’indebitamento degli enti locali (che si stima in oltre 100 miliardi di euro) è ignota.
Da un paio d’anni Giuseppe Vegas (già viceministro di Tremonti) è diventato presidente della Consob, e a suo avviso il lavoro di questo ufficio non è attendibile e crea allarmi che possono limitare la libertà d’azione di banche e imprese. Pensiero condiviso da una ricerca pubblicata a fine luglio e firmata «autonomamente» dal capo degli studi della Consob. La ricerca dice in sostanza che è sbagliato dire al pubblico, risparmiatori o enti locali che siano, quali probabilità hanno di perdere, andare in pari o guadagnare investendo nella finanza strutturata.
Lo studio
degli scenari probabilistici
Ci si chiede su quali basi scientifiche sia stata fatta la ricerca visto che ad una recente consultazione dello Iosco (l’associazione delle Consob mondiali) sulla trasparenza della finanza strutturata, un centinaio di docenti universitari e altri esperti della materia hanno detto che gli scenari probabilistici sono invece l’unica maniera di rappresentare i rischi.
Se «l’impreciso» ufficio avesse esaminato i derivati Mps Santorini e Alexandria, travestiti da titoli di Stato, forse sarebbe stato chiaro a tutti che quelle operazioni erano folli e alla lunga avrebbero fatto fallire la banca. A perdite conclamate, oggi l’importante è invece consentire a Montepaschi di continuare a non contabilizzare le perdite di questi derivati.
La fusione Unipol-Fonsai sta andando avanti, ma la procura di Milano vuole vederci chiaro e chiede alla Consob «quanto valgono oggi quei 6 miliardi di strutturati che fanno quasi metà del portafoglio finanziario di Unipol?». E chissà che non stia venendo fuori qualcosa, dato che Unipol ad aprile ha dichiarato riduzioni del valore per 240 milioni di euro. Guarda caso però, oggi, mentre l’ufficio quantitativo della Consob fa le sue analisi e magari trova i problemi, l’approccio ideato proprio da questo ufficio sta supportando efficacemente gli enti locali nei contenziosi con le banche, la stessa Consob rende nota una ricerca dove si dice che i presupposti di quelle analisi sono sbagliati. Insomma il tema non sembra tanto quello di come affrontare i problemi, ma piuttosto di come nasconderli, possibilmente legalizzando l’opacità.
La proposta di legge
di Giulio Tremonti
La soluzione potrebbe essere dietro l’angolo con la proposta di legge dell’ex ministro Tremonti. Un solo articolo, ma sufficiente per occultare tutta la finanza scomoda dai bilanci delle imprese:
a) obbligo per le società dell’iscrizione dei contratti derivati nella nota integrativa;
b) divieto per le società dell’iscrizione «ex ante» degli effetti degli stessi contratti;
c) obbligo per le società dell’iscrizione solo «ex post» degli effetti degli stessi contratti.
In altre parole: se con un prodotto si rischia di perdere 1.000, la cosa rileva per il bilancio solo quando ci sarà stato realmente un esborso di 1.000. Alla faccia della contabilità-base che prevede appositi accantonamenti proprio perché se c’è un rischio il bilancio deve tenerne conto appena quel rischio viene assunto. Alla faccia dello IAS39, lo standard internazionale di contabilità degli strumenti finanziari, adottato dall’Unione europea nel 2004.
Quindi non misurare i rischi, non prevenirli, ed esporre il nostro asset migliore, cioè il risparmio, all’assedio delle banche estere. Le imprese italiane soffrono il credit crunch? Consentiamogli di affidarsi ignare alla finanza speculativa o di fare derivati a go-go.
Milena Gabanelli