Cosimo Cito, la Repubblica 31/8/2013, 31 agosto 2013
DALLE MALVINAS ALLA PANCHINA L’ALTRA VITA DEL SOLDATO OMAR “ALLENO, MA NON DIMENTICO”
È così che doveva andare, soldato semplice Omar De Felippe: «Le Malvinas le prendemmo il 7 aprile e le perdemmo a giugno, e noi in trincea a morire di freddo, di fame, a rubare il pane ai morti». Fischiavano le bombe, come in quella canzone incredibile dei Pink Floyd, Get your filthy hands off my desert, le mani della Thatcher, il deserto freddo delle Falkland, la meglio gioventù argentina mandata al fronte dal generale Galtieri. Dentro quel delirio c’era anche Omar De Felippe, che allora giocava nell’Huracàn e oggi fa l’allenatore, ed è uno bravo. L’ha voluto l’Independiente, il club più vincente del Sudamerica, il Diablo Rojo caduto in Primera B Nacional, nonostante i 40mila fissi della Doble Visera, il leggendario vulcano di Avellaneda, periferia di Buenos Aires. Il Rojo e il soldato semplice De Felippe, e la sua storia di morte e resurrezione. Quell’alba lunghissima, il 7 aprile 1982, 12 km nel vento glaciale verso Puerto Argentino, una città che gli inglesi chiameranno Stanley, riconquistandola e lui là, sotto le bombe della Raf, ferito, in fuga, perduto.
La racconta ancora De Felippe, quella storia, nei giorni di una nuova trincea, nel cuore di uno stadio smisurato che chiede “pasión, vida, cojones” a chi vi mette piede: «Quella storia per me non è mai finita, anzi, è iniziata allora, a Campo de Mayo, noi disarmati e abbandonati mentre il nostro paese perdeva una guerra per qualcosa che era nostro». L’Independiente, il calcio: «I nostri tifosi ci chiedono di tornare in alto, io posso offrire solo lavoro, sangue, sacrificio». Il calcio, la vita: «Giocando a pallone sono tornato una persona normale, ma non dimenticherò mai dove sono stato, chi ero, e quella guerra che ho combattuto orgogliosamente a vent’anni». Quel misto di rabbia, odio, dolore De Felippe se lo porta dentro, lui che è nato a Mataderos, un barrio di Baires che ha anche nel nome il sangue, la morte e una bellezza selvaggia. Difensore, nato senza il talento addosso. Allenatore spregiudicato, capace di portare in A l’Olimpo di Bahìa Blanca e il Quilmes, attaccando con quattro punte e un rifinitore. Attaccando come in quella notte di aprile sull’Isla Soledad, solo e perduto nell’Atlantico, «a mangiare il grasso avanzato agli altri, a dormire con un occhio aperto» con i Gurkha, i soldati inglesi, che sparavano anche ai fili d’erba. Seicentoquarantanove argentini restarono su quella terra fredda. Loro non videro la mano de Dios di Diego: «Ma hanno esultato anche loro, li ho sentiti tutti, tutti».