Franco Montini, la Repubblica 1/9/2013, 1 settembre 2013
GIANNI AMELIO
ROMA «Il cinema? Prima che una vocazione, per me è stata una via di fuga. Fuga dalla miseria intanto, non intesa in senso economico, piuttosto come mancanza di aspirazioni temerarie. I miei compagni di scuola sognavano giustamente la laurea in giurisprudenza, magari per il posto pronto nello studio del papà avvocato. Mio padre invece faceva l’autista e io ho faticato parecchio a prendere la patente e anche adesso guido in maniera micidiale. Era quasi un obbligo partire, uscire da una casa non protetta, tentare altre strade. Insomma, non avevo niente da perdere».
Nel bar a due passi da casa sua dove è solito avere i suoi incontri di lavoro, nel cuore dell’elegante quartiere Prati, a Roma, Gianni Amelio non ha bisogno di ordinare. Ci accomodiamo nel silenzio di un primo pomeriggio di fine estate e comincia a raccontare cosa ha voluto dire crescere nel piccolo villaggio della Sila dove nacque sessantotto anni fa. E raccontando racconta una storia per certi versi assai simile a quella da lui narrata ne Il primo uomo
film che, attraverso le memorie di Albert Camus, è quasi una sua autobiografia.
Amelio è partito e negli anni ha collezionato riconoscimenti in tutto il mondo, con titoli come Colpire al cuore, Porte aperte, Il ladro di bambini, Lamerica, Le chiavi di casa, La stella che non c’è.
Ed è l’ultimo italiano che ha vinto, con Così ridevano, il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, nel 1998. A Venezia ritorna anche quest’anno per la sesta volta (quasi un record) con L’intrepido, in concorso mercoledì prossimo, protagonista Antonio Albanese in un ruolo che, si sussurra, ricorda Charlot.
Il cinema, dunque, come via di fuga. E come ragione di vita, come lui stesso ha scritto nella prefazione al libro Il vizio del cinema: «Ho smesso da tempo di fumare, bevo con moderazione, e in quanto ai peccati capitali non li pratico proprio tutti e sette. Se andrò all’inferno, com’è probabile, sarà per aver abusato del cinema, fin da ragazzino». «Quando — ricorda oggi — alla fine degli anni Cinquanta, per fare le scuole medie, mi sono trasferito da San Pietro Magisano a Catanzaro, ho cominciato ad andare al cinema ogni volta che potevo, e da allora non ho più smesso. Anche adesso che faccio il regista sono uno spettatore onnivoro, una sorta di malato che vede tutto, quasi senza scegliere, senza puzza sotto il naso. Chi fa cinema di solito frequenta poco la sala, al massimo va alle anteprime, alle proiezioni private. Io se non pago il biglietto non mi diverto, perché non mi sento libero. Penso di aver conservato nonostante tutto un’innocenza da spettatore ragazzino, provo un vero godimento quando si spengono le luci e comincia il film».
«È chiaro che oggi non c’è più lo stesso amore che ha segnato in modo così forte la mia generazione — si appassiona ancora mentre racconta— Una volta si attraversava la città e si spendevano ore per infilarsi in un cineclub o in un pidocchietto, come si chiamavano allora le sale di terza visione. Oggi è talmente facile vedere un film con mezzi diversi dall’andare in sala che, come succede nelle storie d’amore, tutto si è intiepidito, è caduta la passione... Si arriva al paradosso di comprare un dvd non per vedere un film ma per tenerlo in casa sullo scaffale, come un libro che non leggerai mai e però ha vinto l’ultimo premio importante… Per non parlare di chi scarica dalla Rete il titolo che sta oggi sugli schermi e trova, giustamente, un vecchio porno».
A dodici anni Amelio è già un precoce fan del cinema d’autore: «Mi ricordo che nel ’57 ho visto, scegliendoli da solo, i film italiani più belli: Il grido, Le notti di Cabiria, Le notti bianche...
Allora, più che di fare il regista, mestiere molto nebuloso, sognavo di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Non ci ho nemmeno provato come allievo, ma l’ho frequentato come docente, molti anni dopo. E poco tempo fa, quando mi hanno dato una bella pergamena col diploma honoris causa, mi sono un anche po’ commosso, non lo nego».
Alla professione ha avuto accesso, per sua stessa ammissione, da una porta di lusso: «A vent’anni, di passaggio a Roma, ho avuto la sfrontatezza di fare una telefonata a Vittorio De Seta, che aveva già fatto Banditi a Orgosolo, e lui mi ha ingaggiato per il film che stava preparando, offrendomi pure un modesto settimanale. Era una pacchia. Mi svegliavo alle quattro di mattina, per paura di arrivare in ritardo alla convocazione, mentre la troupe ancora dormiva beata… Ho avuto bisogno di tempo per metabolizzare la fortuna che mi era arrivata addosso. Per anni sono stato assillato da un incubo: che tutto potesse finire e che fossi costretto a tornare indietro. Nel momento in cui sono riuscito ad arrivare su un set, mi sono trovato ad amare il cinema-cinema senza guardare tanto per il sottile: di sicuro mi sono divertito di più a fare l’aiuto nei western che nei film intellettuali. A questo mi è servito l’apprendistato: non a imparare la tecnica, perché la tecnica si impara in fretta e si mette da parte. Mi è servito ad assaporare il gusto di fare questo mestiere».
Proprio grazie a questa gavetta, fin da subito, nella esperienza dei tv-movie che Amelio ha iniziato a realizzare a partire dagli anni Settanta, quando la Rai assolveva al proprio compito di servizio pubblico producendo film sperimentali e investendo sui nuovi registi, gli è stata riconosciuta grande professionalità, rigore raffinato, straordinaria abilità nella messa in scena. «Ma non mi reputo affatto — commenta — un regista di nicchia. Mi piacerebbe essere considerato uno che il cinema cerca di farlo perché lo ama e non lo vuole tradire. Le mie vacanze più belle sono i periodi che passo lavorando: dover trascorrere un’estate da disoccupato l’ho sempre giudicata una punizione. Negli ultimi anni ho accettato di dirigere il festival di Torino anche per poter vedere centinaia di film. Ed ero pure pagato per farlo. Che si può volere di più? ».
Da regista l’incontro con il cinema in sala arriva relativamente tardi, nel 1982, con Colpire al cuore, il primo film italiano incentrato sul tema del terrorismo. «Si può dire che per dieci anni io sia stato confinato in un limbo: facevo piccoli film che andavano ai festival, vincevano premi, come nel caso de Il piccolo Archimede, ma non uscivano in sala. Anche perché nel frattempo il mercato stava crollando e le sale stavano sparendo, decimate una dopo l’altra. È un problema che ha segnato tutta una generazione di cineasti: Peter Del Monte, Giuseppe Bertolucci, solo per fare qualche nome… Per un certo periodo mi sono domandato io stesso se fossi davvero un regista. Sulla carta d’identità, che gli avevo chiesto di rinnovarmi, mio padre aveva fatto scrivere “operatore cinematografico”, e in tanti pensavano che facessi il proiezionista…. Forse per questo Colpire al cuore è stata un’esperienza lavorativa traumatica, l’unica veramente traumatica della mia vita. L’avevo caricato di troppe responsabilità».
E tuttavia in Colpire al cuore, più ancora che il tema del terrorismo, emerge quello che sarà il centro di tutto il cinema di Amelio: la figura del padre. «Il mio l’ho conosciuto a sedici anni. Era partito per l’Argentina che io ero nato da poco. E c’era andato per cercare il suo, di padre, che non dava più notizie. Io sono cresciuto con una mamma giovanissima e una nonna gran lavoratrice e buona come il pane, al contrario di quella di Camus. Quando mio padre è tornato eravamo due estranei, ma per fortuna non ne abbiamo fatto un dramma. Io me ne sono andato di casa e basta, meglio così. Ci ho fatto sopra qualche film e soprattutto sono diventato padre a mia volta quando, guarda caso, ho adottato un ragazzo che aveva sedici anni anche lui, come me quando sono diventato figlio. L’altro giorno una delle mie nipotine (sei anni) mi ha chiesto: “Ma tu sei vecchio o anziano?” E la sua gemella si è intromessa: “Che dici? Nonno è maturo”».