Ettore Livini, la Repubblica 1/9/2013, 1 settembre 2013
UNA CERTA IKEA DI MONDO
Il BigMac? La Coca-Cola? Sbagliato. La globalizzazione — come Saturno — ha iniziato a mangiarsi i suoi figli. Hamburger e bevande gasate non tirano più. I veri cittadini del mondo — dall’America alla Cina, da Carugate alla Nuova Zelanda — nascono oggi con una dieta a base di Kötbullar(polpette) al mirtillo rosso, consumate dentro i giganteschi parallelepipedi gialli e blu in cui il Grande Fratello della Casa Globale sta ridisegnando a sua immagine e somiglianza il look di tinelli, cucine e camere da letto del pianeta. Lo stile, ormai, abbiamo imparato a conoscerlo tutti: una libreria Billy qui, un sofà Klippan là, due candele profumate Jubla sul comò per fare ambiente. Al ritmo di una suppellettile d’arredamento alla volta, l’Ikea ha cancellato confini geografici, gusti e tradizioni nazionali. Entrando da padrona (ma con discrezione tutta scandinava) negli appartamenti di mezzo mondo.
Settant’anni fa, quando è nata, la sua missione era tutt’altra: fornire una piccola comunità di campagna. E il nome, acronimo delle iniziali del fondatore Ingvar Kamprad, di Elmataryd, la fattoria in cui era nato e di Agunnaryd, il villaggio di duecento anime in cui viveva, segnava da solo i limiti territoriali delle sue ambizioni. Oggi il colosso svedese ha 330 punti vendita in 40 paesi (il primo fuori dalla Svezia fu aperto 50 anni fa, in Norvegia) e il suo catalogo 2013-2014, fresco di rotativa e per la prima volta in versione unica per tutto il pianeta secondo quanto anticipato da Le Monde che al tema ha recentemente dedicato la copertina del suo magazine, è stato stampato in 220 milioni di copie: il terzo volume più stampato nella storia dopo la Bibbia (3,9 miliardi di copie) e il Libretto rosso di Mao (900 milioni). Sui suoi materassi, vuole la vulgata, viene concepito un europeo su dieci e nei magazzini — uguali come gocce d’acqua a ogni latitudine — entrano 700 milioni di clienti ogni anno.
L’omologazione, del resto, è il segreto con cui i profeti della globalizzazione — riducendo i costi di produzione — riescono a far soldi. Passa il tempo, cambiano stagioni e governi, scoppiano le guerre. Ma una volta varcata la soglia dell’Ikea e lasciata sulla sinistra l’area-bimbi, si entra nella bambagia delle certezze estetiche planetarie. Le uniche note distoniche: i prezzi e le marginali concessioni alle consuetudini locali, ultimi frammenti di biodiversità domestica sopravvissuti alla filosofia egualitaria del marchio giallo-blu. L’Italia, per dire, è stata la culla del boom delle scarpiere: nate nei magazzini tricolori, in nome del culto della scarpa del Belpaese, e diventate oggi un best-seller dovunque. Negli Stati Uniti vanno di più i letti king-size e i materassi molli, in Asia quelli rigidi come marmo. In Cina hanno più spazi gli specchi — si vendono come il pane — in Francia si restringono i letti matrimoniali. I punti vendita in Scandinavia non prevedono tende o porte per docce, quelli inglesi hanno solo pareti scorrevoli di vetro mentre in Spagna e Italia c’è più spazio per le tende plastificate bianche. Il massimo del disordine creativo è invece ovunque codificato nei Bulla-Bulla, i cestoni dove si ammucchiano con curatissima noncuranza gli oggetti per la casa. Un trucco di marketing vecchio come il mondo per dare un’impressione di convenienza.
Il metodo, numeri alla mano, funziona. L’elenco dei clienti — dai reali delle corti europee ai bei nomi di Hollywood — dimostra come lo stile Ikea abbia sbriciolato le barriere sociali e dribblato le polemiche che hanno segnato i suoi sette decenni di esistenza. L’elenco, anche in questo caso, è lungo: dalle simpatie filo-naziste del fondatore alla segretezza dei dati di bilancio (il primo è stato pubblicato nel 2010). Dall’accusa di aver sfruttato i prigionieri politici nella ex-Ddr alla decisione di togliere le donne dalla versione saudita del suo catalogo. Fino alla carne di cavallo proprio nelle Kötbullar, ai sospetti di spionaggio su clienti e dipendenti in Francia e ai colibatteri trovati nella mitica Chokladkrokanttarta, la torta mandorle e cioccolata ritirata in 23 paesi e poi tornata sugli scaffali a pericolo scampato.
In un’azienda davvero mondiale, del resto, i problemi — come le loro soluzioni — sono sempre a 360 gradi. E il colosso svedese, con rigore nordico, si è rimboccato le maniche per provare a fare da capofila — il tempo dirà con che risultati — anche nella globalizzazione dei doveri d’impresa e dei diritti dei consumatori. Il 47% dei manager è donna. Un terzo dell’energia bruciata nei grandi magazzini giallo-blu (recita il rapporto sociale del gruppo) deriva da energie rinnovabili. Il 22% dei materiali utilizzati (Ikea è il maggior compratore di legno al mondo) arriva da piantagioni certificate e centinaia di ispettori vigilano sulle condizioni di lavoro presso i fornitori. Un format che finora ha pagato: nel 2012 la società ha fatturato oltre 27 miliardi di euro e macinato 3 miliardi di utili. Ventottomila giovani italiani si sono messi in fila per i 200 posti di lavoro creati nel nuovo punto vendita di Pisa. Buon cuore, prezzi bassi e profitti. Tutto si tiene. I poveri di oggi, in fondo, saranno i clienti di domani. La Fondazione dell’azienda ha persino lanciato una “tenda per rifugiati”: in versione giallo-blu, è stata progettata con le Nazioni Unite per il comfort in stile-Ikea nei campi profughi. Resistente, termo-isolata, componibile (ci mancherebbe altro). Manca la cucina. Altrimenti, c’è da scommetterci, il benefattore svedese, in nome della globalizzazione della solidarietà, offrirebbe pure un piatto di Kötbullar.