Marco Zatterin, La Stampa 1/9/2013, 1 settembre 2013
ISOLE FAR OER, CACCIA ALL’ULTIMA ARINGA
Per la televisione danese è davvero una «breaking news». Sul piccolo schermo rimbalzano da giorni le immagini del porto di Torshavn, la capitale delle Isole Far Oer. Si vedono gli edifici multicolori del governo, le basse case arrampicate sulla collina tondeggiante e una infinità di vele, motoscafi, traghetti, barche da pesca dalla taglia lillipuziana.
Dei dieci pescherecci protagonisti delle prime pagine scandinave non c’è neanche l’ombra. L’Ue li accusa di aver violato i limiti delle catture di aringhe, di essere andati scientemente tre volte oltre il consentito, così ha chiuso l’import dall’arcipelago con effetto immediato. Per questo i marinai si tengono alla larga. Continuano a gettare le reti e aspettano di vedere l’effetto che fa.
È l’ennesimo episodio nella saga delle guerre del pesce combattute nei mari del Nord. La storia racconta di britannici e islandesi più volte sull’orlo del conflitto proprio per cercare di affermare i propri diritti secolari sul merluzzo, nonché di scandinavi ai ferri corti permanenti coi russi.
Le risorse ittiche sono l’oro dei freddi mari che bagnano le sponde settentrionali del continente, motivo sufficiente per giocarsi vita e futuro. Lo insegna la Norvegia che - ricca di petrolio e pescatori - ha sempre rifiutato troppi patti con Bruxelles anche per conservare margini su quanto e dove cercare le sue prede in acqua.
Le Far Oer hanno fatto di più. Quando nel 1973 la Danimarca - da cui dipendendo formalmente sebbene con grande autonomia - è entrata nella Comunità europea, si sono garantite condizioni di extraterritorialità. Sono fuori dal club e il Trattato di Roma che ha creato il sodalizio a dodici stelle nel 1957 lo scrive esplicitamente. L’indipendenza è tale che persino i cittadini danesi che abitano le isolette sospese fra Islanda, Scozia e Norvegia non sono considerati cittadini comunitari. Le 50 mila anime dell’arcipelago hanno diritti speciali. Ma ciò non toglie che loro, come tutti, debbano rispettare i patti internazionali sui limiti alla pesca, intese mirate a difendere gli stock che ogni ora compiono un passo verso il punto del non ritorno.
Le regole del gioco sono chiare. A livello planetario si è deciso di limitare le catture di tutte le specie a rischio in modo da evitarne l’estinzione. La quantità di catture per le aringhe scandinave-atlantiche viene fissata dal 2007 (sulla base di una serie di pareri scientifici) da Ue, Russia, Norvegia, Islanda e Far Oer. L’ultimo accordo attribuisce a Oslo il 60% del totale, il 12 va a Mosca, gli islandesi hanno il 14,5, gli europei il 6,5. Gli isolani dell’arcipelago che etimologicamente è «delle pecore» hanno ottenuto il 5%. Non abbastanza, a sentire loro.
Il premier Kaj Leo Johannesen, 48enne liberal-conservatore, è persuaso che non ci fosse scelta se non pescare di più. L’industria ittica costituisce il 95% delle esportazioni faroesi, 700 milioni di entrate annue a cui è difficile rinunciare. Aringhe e sgombri, accomunati dalle tecniche di pesca, valgano quasi un quarto della torta. Facile vedere come un calo dell’attività dei pescherecci comporti un automatico e diffuso taglio di reddito. Johannesen contesta la logica delle decisioni multilaterali. Sono cambiati i movimenti migratori dei banchi, argomenta: oggi aringhe (e sgombri) sono più nelle acque delle Far Oer di quanto ce ne fossero un tempo. «Per questo dobbiamo avere di più», insiste. Non solo. I pescatori locali giurano che gli europei praticano sistematicamente l’«overfishing», perché sono autorizzati a scartare quello che non serve. «Altro che tutela dei branchiati!», protestano.
Bruxelles non ha avuto esitazione. All’inizio dell’estate ha ricevuto una serie di reclami, in testa quello dell’Eapo, l’associazione continentale delle organizzazioni ittiche. Lamentavano «anni di comportamento irresponsabile». Dati alla mano, a metà agosto ha deciso le sanzioni. Stop all’import di aringhe e sgombri dalle Far Oer, 27 voti favorevoli, uno contrario. La Danimarca, ovviamente. Seccata al punto che la commissaria Connie Hedegaard, paladina della lotta al climate change di permanenza in quei giorni, ha avuto la cura di accertarsi che fosse chiaro che la decisione era dell’Unione e non sua.
«Potevano fermarsi e non l’hanno fatto - ha tuonato la responsabile Ue per la Pesca, Maria Damanaki -. Non ci hanno lasciato scelta, non possiamo cedere sulla strada della sostenibilità di lungo termine». Il risultato è che da martedì il pesce delle Far Oer non arriverà in Europa e soprattutto nel Regno Unito, primario consumatore di aringhe. O almeno non dovrebbe. Il condizionale è d’obbligo perché i controlli sono affidati allo stato membro, dunque ai danesi. «Siamo sicuri del loro zelo?», si chiede a Bruxelles un alto funzionario. Bruxelles cercherà di stringere i controlli, sperando in un accomodamento fra un mese, nel negoziato pentapartito previsto a Londra. Si augura che Copenhagen faccia il suo dovere. E che il marcio in Danimarca, alla peggio, sia solo il pesce non venduto.