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 2013  settembre 01 Domenica calendario

QUANDO IL «SÌ» LO ESPORTAVAMO

È una fortuna che un libro come La lingua degli angeli sia stato pubblicato da uno studioso forestiero: Harro Stammerjohann - tedesco, professore emerito di Linguistica romanza a Chemnitz – è membro straniero dell’Accademia della Crusca, nella cui collana Storia dell’italiano nel mondo è uscito il volume. Sottotitolo: Italianismo, italianismi e giudizi sulla lingua italiana. In effetti, le coordinate anagrafiche dell’autore lo mettono al riparo da due opposti rischi: da un lato, la promozione un po’ querula e campanilistica dell’italiano e dell’italianità cui quasi spontaneamente indulgono, pur con le migliori intenzioni, studiosi individui e benemerite istituzioni; da un altro, la tendenza non meno diffusa tra gli italiani, almeno dal tempo di Dante, ad emettere verdetti autocritici di una severità forse ignota a qualsiasi altro popolo d’Europa.

Né apologetico, né denigratorio – e rivolto a un pubblico di non soli addetti ai lavori – il saggio di Stammerjohann rende conto nella sua parte centrale dell’enorme quantità di parole che dall’italiano sono migrate, nei secoli, verso le altre lingue straniere, tanto da destare – ad esempio nel Cinquecento – le preoccupazioni di puristi transalpini terrorizzati da un francese sempre più italianisé. Anzi che come terra di conquista linguistica straziata prima dal francese e poi dall’inglese (così lo dipingono i puristi nostrani), l’italiano appare da questa prospettiva come un contaminatore indefesso delle lingue vicine e lontane. Dalle parole più universalmente note (come i termini d’architettura francesi niche, relief, stuc e pilastre o quelli militari inglesi battalion, cartrige e cavalry) alle più peregrine (come il cinese tingbo "tempo" – musicale – o il giapponese karari-no "clarino"), fino a quelle ormai tramontate (come lo spagnolo cortesano o l’antico ceco harcie? "arciere"): la rassegna di Stammerjohann ripresenta e amplia, in forma anche più gradevole, l’enorme quantità di materiali che egli stesso, con altri colleghi, adunò qualche anno fa in un Dizionario di italianismi dedicato al lascito della nostra lingua a inglese, francese e tedesco.

Ma colleziona anche una lunga serie di schede e aneddoti sulla presenza della cultura italiana in quelle del resto del mondo, dall’Inghilterra di Chaucer fino agli estremi confini canadesi o australiani dell’emigrazione novecentesca, in cui si è potuto produrre l’italiese del secolo scorso (e bisognerebbe aggiungere anche il taliàn brasiliano). Ma già prima gl’italiani avevano pacificamente invaso città come Vienna da Massimiliano I a Giuseppe II, o Dresda ai tempi dei due Federico Augusto, o ancora la «Roma sul Baltico» fondata da Pietro il Grande. Centri nelle quali la presenza italiana era, più che un fatto semplicemente demografico, un elemento culturale decisivo: c’è una differenza tra l’essere una comunità numericamente rilevante o economicamente influente, e il divenire bussola delle inclinazioni artistiche di una capitale.

A chiudere, un capitolo dedicato ai giudizi, di norma lusinghieri, ora denigratori (in tal caso di solito frutto d’invidia) sulla lingua italiana da parte di scrittori stranieri o dalla vox populorum, com’è noto inclemente («gli spagnoli piangono, gli italiani ululano e i francesi cantano», si diceva nel Portogallo del Cinquecento). Se ne trae, forse, un messaggio più interessante della fortuna mondiale dei lessemi ciao, pizza, maccheroni, paparazzi, o dell’incerta interpretazione di fatti grammaticali che lasceranno perplessi i linguisti professionali (da discutere, ad esempio, che italianismi come intarsia e romanza si spieghino col fatto che «l’inglese non conosce la categoria del genere grammaticale»): l’impressione, cioè, che l’Italia – almeno nei secoli trascorsi – si sia caratterizzata, più che qualsiasi altra nazione, per un’eccezionale capacità di esportare cultura. Cultura umanistica, in particolare: arte, musica, letteratura, tanto che l’idea stessa, prima ancora che la conoscenza della lingua italiana è legata, nell’immaginario di miliardi di uomini, a quella cultura. Cioè giust’appunto al prodotto che con più impegno, a volte, alcuni italiani d’oggi sembrano voler degradare al rango d’una fastidiosa e inessenziale zavorra. Ma se cercassimo di far dire questo a Stammerjohann, gli faremmo torto, per le ragioni sopra esposte, che rendono quella appena esposta la tipica impressione di un lettore italiano. Per finire, il titolo, La lingua degli angeli, allude a un passo delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull in cui Thomas Mann, per sentirsi uno scrittore vero, abbandona il tedesco e appunto in italiano scrive: «Ma Signore, che cosa mi domanda? Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo... Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano».