Antonella Scott, Il Sole 24 Ore 30/08/2013, 30 agosto 2013
L’OLIGARCA TRAVOLTO DAI DEBITI COL POTERE
«Questa - scriveva Paul Klebnikov nel suo libro-inchiesta Il Padrino del Cremlino - è una storia di corruzione così profonda, che molti lettori faticheranno a crederla vera». La storia di Boris Berezovskij, maestro dell’intrigo politico, «diventato dal nulla il businessman più ricco di Russia e uno degli individui più potenti del Paese». La storia del «declino della Russia nel capitalismo dei gangster», il decennio in cui pochi affaristi senza scrupoli saccheggiarono tutto quello che la fine dell’Urss aveva messo in palio, privatizzando lo Stato a vantaggio esclusivo dei propri imperi. «E nessuno - scrive Klebnikov - approfittò della discesa della Russia nell’abisso» più di Berezovskij. Nessuno era riuscito ad avvicinarsi meglio di lui, nello stesso tempo, alla criminalità organizzata, al mondo del business, alle stanze del potere.
Klebnikov, giornalista americano, racconta l’ascesa di Berezovskij fino al 2000, e lo abbandona alla vigilia della caduta: la fuga a Londra, dove Berezovskij - entrato in rotta di collisione con Vladimir Putin - ottenne asilo nel 2003. Per dieci anni fu al centro di infiniti casi giudiziari, minacce e cospirazioni. Klebnikov non ha potuto raccontarli: il 9 luglio 2004, a Mosca, qualcuno gli sparò. Tra i possibili mandanti dell’omicidio appare anche il nome di Berezovskij. Il caso non è ancora stato risolto.
Resterà aperta a lungo anche l’inchiesta sulla fine dell’oligarca, trovato morto il 23 marzo nel bagno della residenza di Ascot con del "materiale" - termine usato dalla polizia britannica - attorno al collo, un altro pezzo appeso all’asta della doccia. Morte "compatibile" con l’ipotesi di suicidio per impiccagione, ma con la scia di nemici lasciati alle spalle è inevitabile considerare altre ipotesi. I risultati dell’esame tossicologico che accerterà la ragione della morte non saranno disponibili prima di fine anno. Ma ci vorrà ancora più tempo per rispondere ai mille interrogativi sul patrimonio lasciato dall’uomo a cui Forbes, nel 1997, attribuì una fortuna di 3 miliardi di dollari. Il sospetto - alimentato dall’ipotesi di un suicidio dettato dalla depressione - è che non ne sia rimasto più nulla, se non debiti.
Boris Berezovskij aveva scelto la carriera scientifica, ma arrivò a trovare ben più appagante l’applicazione delle teorie sul controllo e la formazione decisionale alle possibilità aperte dalle riforme di Mikhail Gorbaciov, e poi dal collasso del sistema economico sovietico. Cominciò dal commercio di automobili, uno dei settori più pericolosi, facendosi strada tra i grandi gruppi criminali che se lo spartivano, sfruttando le occasioni offerte dalla guerra in Cecenia per poi passare al petrolio, all’alluminio, al controllo dell’informazione. Una strada costellata da imprese mandate in rovina, morti violente, aste truccate, patti con i clan, salendo sempre più in alto fino all’orecchio dello Zar, Boris Eltsin. Berezovskij non fondava aziende sue: studiava l’ambiente e "lavorava" le persone giuste per arrivare a controllare e sfruttare ciò che di meglio già esisteva, risucchiando denaro da incanalare nella sofisticata rete finanziaria creata all’estero. La chiamava «privatizzazione dei profitti». Avtovaz, Aeroflot, la tv Ort, Sibneft erano i gioielli della corona di Berezovskij, peraltro più attratto dal potere che dal denaro. Introdotto nella cerchia ristretta di Eltsin, il primo tra gli oligarchi riuscì a inserirsi al punto da poter condizionare gli eventi dell’intero Paese: la rielezione di Eltsin nel 1996 e poi la scelta dell’erede, Putin. Nella convinzione di poter manipolare anche quest’uomo che nessuno ancora conosceva, e continuare liberamente a essere l’Eminenza grigia del Cremlino.
Non poteva sbagliarsi di più: Putin non era Eltsin. Le nuove regole prevedevano la sottomissione totale degli oligarchi che desiderassero restare tali, e in breve Berezovskij, non più intoccabile, si ritrovò nel mirino della magistratura per aver sottratto milioni di dollari ad Aeroflot. La guerra continuò da Londra, da dove Berezovskij definì Putin "un gangster" che solo una rivoluzione violenta - che lui sarebbe stato felice di finanziare - avrebbe potuto rovesciare. Da Mosca a sua volta veniva accusato di qualunque crimine, i suoi beni confiscati, il suo nome accostato all’avvelenamento dell’ex agente del Kgb Aleksandr Litvinenko, ucciso nel 2006 da un tè contaminato con polonio. E intanto le vicende giudiziarie cominciavano a intaccare un patrimonio che contava diverse proprietà tra Mayfair, Chelsea e Belgravia, il Sud della Francia. Il colpo di grazia sarebbe stato il verdetto umiliante con cui Berezovskij, "testimone inattendibile", perse un anno fa una causa da 5,6 miliardi di dollari contro Roman Abramovich, l’oligarca con cui aveva condiviso un tempo Sibneft e che Berezovskij accusava di averlo costretto a cedere le proprie azioni della compagnia petrolifera.
Dicono che la sconfitta abbia distrutto Berezovskij emotivamente, oltre ad accelerarne la rovina finanziaria. E certo l’uomo non era più quello di un tempo, se davvero - come afferma il Cremlino - prima di morire Berezovskij scrisse a Putin, per chiederne il perdono. «Tornare in Russia...non c’è nulla che io desideri di più», disse in un’intervista il giorno prima di morire. Ma riguarda proprio la patria il giudizio più severo di Klebnikov. «L’eredità più distruttiva di Berezovskij - scrisse il giornalista chiudendo il suo libro - è che rese lo Stato ostaggio dei propri interessi privati. In altri Paesi gli uomini d’affari fanno lobbying per promuovere i propri interessi. Berezovskij arrivò a controllare i governanti per costringere lo Stato a nutrire il proprio impero. Non produsse alcun beneficio per i consumatori, l’industria, le finanze della Russia. Non creò nuova ricchezza».