Giovanni Belardelli, Corriere della Sera 02/09/2013, 2 settembre 2013
VENT’ANNI DI FALSA RIVOLUZIONE MA L’ONESTA’ NON E’ ANCORA UNA VIRTU’
Nell’anno in corso i controlli sulle esenzioni dal ticket sanitario hanno rivelato irregolarità addirittura in un caso su due. Se pensiamo che ogni anno le prestazioni esenti da ticket — come ha ricordato Lorenzo Salvia (Corriere del 24 agosto) — sono 67 milioni, possiamo avere un’idea della gigantesca truffa compiuta da molti italiani ai danni dello Stato. Ma la notizia sembra essere scivolata via senza suscitare troppa attenzione; forse per il fatto che è solo una delle tante che costantemente richiamano un fenomeno più generale e a tutti noto: la propensione a non rispettare leggi e regole come dato strutturale della società italiana. Una propensione che è, appunto, documentata ad abundantiam dai nostri tassi di evasione fiscale, dal fenomeno dell’abusivismo edilizio di massa, dalla diffusa considerazione della «tangente» e della microcorruzione come dato inevitabile. Si tratta del resto di un fenomeno evocato un’infinità di volte, spesso richiamando le solite spiegazioni bell’e pronte: il particulare guicciardiniano, la mancata Riforma protestante, la tardiva unificazione nazionale e così via. Ma è più utile interrogarsi invece sulla pseudosoluzione (e sulla connessa pseudospiegazione) che da vent’anni in qua abbiamo creduto di dare al problema dell’illegalità diffusa nel Paese.
La pseudosoluzione risale agli anni delle inchieste di Mani Pulite. Il famoso cartello inalberato da un manifestante fuori della Procura di Milano («Di Pietro facci sognare») ben sintetizzava l’opinione, allora prevalente, che il malaffare e l’illegalità fossero esclusivo appannaggio dei partiti e di quella parte del mondo economico che prosperava grazie ai rapporti, più o meno opachi, con la politica. In quest’ottica, una società civile invece sana doveva soprattutto appoggiare i magistrati nella loro opera di pulizia. Che si potesse cambiare nel profondo un Paese segnato dalla scarsa propensione alla legalità attraverso una rivoluzione per procura (nel doppio senso dell’espressione: lasciando il compito ad altri e affidandosi alle Procure) era evidentemente un’illusione. Un’illusione che tuttavia non è interamente scomparsa: ritorna nella polemica contro la «casta» politica, almeno quando quella polemica (certo non infondata) dimentica i privilegi delle piccole e grandi corporazioni italiane; soprattutto, ritorna nell’idea che la magistratura inquirente abbia il compito non solo di verificare se nel singolo caso la legalità è stata effettivamente violata, bensì anche quello di un generale controllo di legalità (e forse di moralità) sulla vita del Paese. C’è un’idea del genere anche dietro il fatto, piuttosto straordinario, della creazione di due partiti fondati da pubblici ministeri, che alludevano già nel nome all’obiettivo di moralizzare il Paese (Italia dei valori, Rivoluzione civile).
Notizie come quella relativa alle indebite esenzioni dal ticket ci ricordano dunque che in vent’anni il nostro scarso rispetto delle leggi e delle regole non si è granché modificato. Quanto alla corruzione in senso proprio, le costanti denunce della Corte dei conti indicano come essa non abbia cessato di aumentare. Ed ecco allora che di fronte a un Paese che non sembra aver fatto molti passi avanti, a livello di comportamenti diffusi, nel rispetto della legalità e nella moralità pubblica e privata, alcuni commentatori hanno coniato una pseudospiegazione consolatoria. Secondo la quale sono tanti, è vero, gli italiani che cercano in ogni modo di non rispettare regole e leggi, ma sono tutti schierati col centrodestra e dunque la cosa non coinvolgerebbe più di tanto l’Italia che vota a sinistra. I successi elettorali di Berlusconi si spiegherebbero proprio con la sua grande capacità di attrarre i voti di questa parte del Paese. Si tratta di una spiegazione evidentemente inconsistente sul piano analitico. Non solo sarebbe impossibile dimostrare che, ad esempio, i milioni di abusi edilizi che hanno deturpato le nostre coste sono stati compiuti da persone di una determinata parte politica. C’è anche il fatto che, una volta evocate certe caratteristiche profonde, di tipo antropologico-culturale, del nostro modo d’essere rispetto alla legge, non ha poi senso sostenere che una parte del Paese ne sarebbe rimasta immune sulla base della circostanza di votare Pd piuttosto che Pdl. Come disse spiritosamente un paio d’anni fa l’attuale presidente del Consiglio, non ha senso che la sinistra sostenga che a parcheggiare in doppia fila sono sempre e solo gli altri. Eppure, ancora pochi giorni fa un’idea del genere l’ha riproposta un accreditato politologo come Piero Ignazi il quale, sul sito della rivista Il Mulino, ha addebitato i successi di Berlusconi proprio alla diffusa insofferenza per le regole, al familismo e ad altri consimili difetti di chi lo ha votato. Questo «razzismo etico» — come lo definì Luca Ricolfi — non è solo infondato ma anche pericoloso per un Paese dai legami collettivi già piuttosto deboli. Rischia infatti di alimentare, anche per il futuro prossimo in cui Berlusconi sarà uscito di scena, un’idea della politica come scontro di civiltà tra due Italie che sono e devono restare incompatibili; un’idea che è davvero poco conciliabile con la democrazia.
Giovanni Belardelli