Paolo Rastelli, Corriere della Sera 02/09/2013, 2 settembre 2013
IL MARCHESE DI LAFAYETTE E LE PATATINE FRITTE. L’AMICIZIA INSTABILE DI FRANCIA E AMERICA
Si chiama Assassin’s Creed 3, un videogame di una serie di enorme successo presente su pc e consolle di mezzo mondo. Ambientato durante la Guerra di indipendenza americana (1775-1783), a un certo punto fa entrare in gioco (è il caso di dirlo) il marchese di Lafayette, il generale francese di nobile nascita che in nome della libertà attraversò l’oceano per andare a combattere al fianco dei coloni contro il dispotismo britannico. Una presenza, in un prodotto di largo consumo di produzione americana, che non stupisce nessuno. Lafayette (che diventò grande amico di George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti e che in seguito se ne tornò in Francia a battersi contro la monarchia assoluta, salvo poi essere costretto a espatriare quando la Rivoluzione francese prese decisamente la strada del radicalismo giacobino) è conosciuto da ogni studente a stelle e strisce ed è diventato con gli anni il simbolo dei profondi legami che uniscono la Francia agli Stati Uniti, al di là delle contingenze che possono vedere i due Paesi divisi in politica estera.
Così il fatto che in questa occasione il primo ministro François Hollande si sia schierato sulle posizioni di Barack Obama non deve stupire più che tanto. Certo, la differenza rispetto al conflitto iracheno fa impressione. Come dimenticare le mitiche Freedom Fries che nel menu della caffetteria del Congresso Usa (l’equivalente della nostra buvette di Montecitorio) presero il posto delle French Fries, come vengono chiamate le patatine fritte nel linguaggio comune anglosassone? Era il 2003 e la Francia, allora sotto la presidenza Chirac, era a tal punto contraria all’invasione dell’Iraq da diventare il Paese capofila dell’opposizione alla politica estera di George W. Bush. Così cominciò il fenomeno delle Freedom Fries, la patatine della libertà che mutuarono il nome da Enduring Freedom, l’insieme delle operazioni lanciate dagli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre. Le Freedom Fries furono servite non solo al Congresso ma in numerosi fast food e tavole calde sparse negli Stati Uniti. Poi finirono nel dimenticatoio quando anche in Usa l’esaltazione lasciò il posto al disincanto: furono tolte senza clamore dal menù della Camera dei rappresentanti il 2 agosto 2006 (fonte Wikipedia).
Trovare nella storia degli Stati Uniti sentimenti antifrancesi così violenti non è comunque facile. Più frequente, forse, è il contrario. Per esempio Charles De Gaulle accettò sempre a malincuore la tutela americana del mondo occidentale instaurata dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la Guerra Fredda. Anzi, anche prima: nonostante la rinascita dell’esercito francese dopo la sconfitta del 1940 sia avvenuta essenzialmente grazie ai rifornimenti americani (la prima Armata francese che combattè nel settore meridionale del fronte occidentale fino alla resa tedesca del 1945 era completamente equipaggiata di materiale made in Usa), i rapporti di De Gaulle con Franklin Delano Roosevelt, allora inquilino della Casa Bianca, furono sempre difficili.
D’altronde è difficile amare una persona dai cui voleri dipendi completamente, soprattutto se sei un tipo orgoglioso come De Gaulle: al massimo puoi provare gratitudine, sentimento che in politica ha poca cittadinanza («La gratitudine è la malattia dei cani», diceva Stalin). Senza contare che i francesi si erano sentiti traditi nel 1940 quando Roosevelt, ben conscio dei sentimenti isolazionisti del suo popolo, si era fermamente rifiutato di entrare in guerra. E avevano di nuovo provato un sentimento di abbandono dopo il 1945: gli americani, ferocemente anticolonialisti, non avevano fornito aiuti per riconquistare le ex colonie francesi del Sud-Est asiatico (Vietnam, Laos e Cambogia) che dopo l’invasione giapponese lottavano per l’indipendenza. L’atteggiamento americano cambiò solo quando la deriva filocomunista dei movimenti di liberazione fu evidente. Ma era troppo tardi e gli Usa poi la pagarono carissima: costretti dalla realpolitik a prendere il posto dei francesi, si trovarono imprigionati nell’incubo vietnamita.
Così tra gli ufficiali francesi di destra (una parte dei quali diedero poi vita all’Oas all’epoca della guerra algerina) l’odio per gli americani era quasi pari a quello per i comunisti. E De Gaulle decise poi che non avrebbe più accettato tutele, tanto da insistere fortemente per la creazione di una forza nucleare autonoma (la Force de Frappe) e da far uscire la Francia dalla Nato nel 1966.
Tornando indietro nel tempo, alla prima guerra mondiale, Parigi e Washington andarono abbastanza d’accordo, almeno fino alla fine del conflitto. Poi l’orrore del presidente americano Woodrow Wilson per la politica aggressiva e il colonialismo fece tornare la freddezza: per esempio gli americani non videro affatto di buon occhio gli accordi Sykes-Picot che decisero la spartizione del Medio Oriente tra Gran Bretagna e Francia e lo disegnarono come lo conosciamo oggi (a parte l’esistenza di Israele): la Siria, il Libano e l’Iraq, creazioni artificiali organiche agli interessi anglo-francesi, nacquero allora, con il senno di poi una decisone non molto felice.
Ma sull’entusiasmo popolare americano per i francesi non ci furono mai molti dubbi, tanto che alcuni giovani statunitensi decisero di andare ad aiutare la Francia senza aspettare l’impegno ufficiale del proprio Paese. Nacque così la Escadrille Lafayette: 42 aviatori (38 americani) che con i loro biplani adorni della testa di un capo indiano disputavano ai tedeschi i cieli francesi. E quando nel 1917 gli americani si apprestavano a entrare davvero in guerra, il capitano Stanton, a nome del generale Pershing, comandante in capo del contingente americano, pronunciò il famoso slogan «Lafayette, arriviamo». Gira e rigira, sempre lì si è destinati prima o poi a tornare ..
Paolo Rastelli