Marco Missiroli, la Lettura (Corriere della Sera) 01/09/2013, 1 settembre 2013
CARRÈRE: «IO, A TU PER TU CON IL DIAVOLO»
Emmanuel Carrère giocò la sua partita con l’abisso una mattina di gennaio del 1993. Era seduto in cucina e sfogliava un quotidiano, capitò su un articolo di cronaca. È il momento che marchia un’esistenza.
L’articolo raccontava di quest’uomo, Jean-Claude Romand, che una notte di qualche giorno prima aveva messo a letto i suoi due bambini ed era rimasto con la moglie a chiacchierare del più e del meno, lei si sentiva un po’ giù perché la madre le riversava addosso una vecchiaia infelice. Romand la consolò, aspettò che si addormentasse, poi andò in cucina e prese il mattarello con cui i loro figli stendevano il pongo. Tornò in camera e sfondò il cranio all’amore di una vita. Attese l’alba e svegliò i bambini, propose di guardare insieme un cartone animato mentre facevano colazione. E la mamma? Romand rispose che voleva dormire ancora, anzi bisognava far piano. Sgranocchiarono i cereali davanti ai Tre porcellini, lui li strinse e disse «vi voglio bene», si alzò e andò a prendere la carabina in garage. Sparò alla figlia maggiore, infine al più piccolo. Fece la stessa cosa, qualche ora dopo, con i propri genitori.
Jean-Claude Romand aveva trentanove anni e fino a quel momento era stato un medico stimato per chiunque. Chiunque, da quel momento, seppe che non si era mai laureato e che non aveva uno straccio di lavoro: da vent’anni passava le sue giornate chiuso in auto facendo credere ciò che non era. L’inganno perfetto. Verso la sua famiglia, i suoi amici, verso il mondo intero. È la grande menzogna che fulminò Emmanuel Carrère e diede corpo al suo capolavoro: L’avversario. «Romand è il vuoto. L’assenza. Una menzogna normalmente copre un piccolo aspetto di ognuno di noi. Per lui non era così. Per lui era il tutto. Quello che aveva dentro quest’uomo è quanto più prossimo all’inferno. La sua storia mi ha contaminato come una radiazione mortale».
Sono passati due decenni da quando Carrère decise di calarsi in questo baratro, più di uno dall’uscita del libro che lo descrive. Il demone sopravvisse: «Dopo aver letto quell’articolo ho pensato che dovevo lavorarci sopra. Non sapevo che mi sarei imbattuto in un’impresa che avrebbe rovinato sette anni della mia vita». All’inizio, Carrère non sa come approcciarsi a Romand, gli spedisce un messaggio nel carcere dove è rinchiuso. Per mesi non ottiene risposta. Poi l’omicida scrive, è una lettera di un uomo che non ricorda bene l’accaduto e che ha un solo desiderio: farsi largo nell’oscurità. Oblio e caos, nel territorio del diavolo. È l’inizio di una corrispondenza che porterà Carrère ad assistere all’intero processo e a far visita all’assassino dietro le sbarre. «Ma non sono riuscito a convincerlo a dirmi tutto semplicemente per un motivo: Jean-Claude Romand non è in grado di farlo. Così ho provato io a raccontare la sua storia, partendo dalla sua incapacità di parlare di se stesso».
Nasce qui la fame narrativa carrèriana: spolpare le ferite altrui, confonderle con le proprie, rigettarle al mondo. Nessuna sentenza, soltanto pietas per l’umano in bilico. Una storia va scelta se trattiene ferocia e compassione, terrore e fegato. «Ho impiegato sette anni per scrivere L’avversario, nel corso dei quali ho anche finito La settimana bianca, una specie di suo gemello sotto forma di fiction. Ho lavorato come potevo, a tastoni, a tentativi, nelle tenebre, come in un tunnel. Ero disperato perché non riuscivo a trovare una via d’uscita». Invece la trova, per farlo soffoca pudore e l’istinto da padre di famiglia, i suoi bambini avevano la stessa età di quelli di Romand.
Carrère sapeva cosa c’era in palio: o ne veniva fuori finendo il libro o sarebbe stato il libro a finire lui. «Portare a termine questa storia è la cosa più difficile che abbia mai fatto. So che è un cliché parlare di un’opera "che non lascia indenni", ma io non ho paura di questo cliché. Se ne valeva la pena, non lo so. So solo che l’ho pagata molto cara. Da questa esperienza ho cambiato il mio modo di scrivere, passando alla prima persona e alla non-fiction».
È il trauma che genera il connotato più potente di Carrère, volersi specchiare nel destino degli altri. Limonov viene da qui, come Vite che non sono la mia o Un romanzo russo: la facilità con cui Carrère dice «io» nasconde sempre il terrore di pronunciare «egli». Perché «egli» è il demonio. Lo spiega lo stesso scrittore parigino quando prova a immaginare gli ultimi istanti dei genitori di Romand, nel momento esatto in cui si sono trovati di fronte la loro creatura con il fucile puntato. «Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’avversario».
Emmanuel Carrère non bara mai. Onesto nella prosa, in quello che osserva, onesto nelle interviste. Conosce una legge che sconta da sempre: per raccontare qualcosa di vero devi aver provato qualcosa di simile. Allora, Emmanuel, cosa c’è in lei di Romand, di Limonov, o di tutti gli altri reduci o assassini di cui narra? «C’è la tendenza, anche minima, di voler oltrepassare il confine della normalità». Una dannazione iscritta in chi la vive, allo stesso modo in chi decide di scriverla. Anche quando un’opera è finita, la sua eredità rimane.
Nel caso di Romand il conto da pagare è doppio. Va cercato nel fattore tempo: nel 2015 «l’avversario» uscirà di galera. C’è di mezzo la buona condotta e le attenuanti per una specie di infermità mentale. Carrère sa che questo libro è sigillo di un legame sottile. «Non ho più contatti con Romand, ma se domani mi scrivesse gli risponderei. Ho con me ancora una dozzina di documenti che mi ha concesso di spulciare. Se uscisse di prigione potrebbe volerli: sono pronto. Ho custodito il suo passato, e con esso il mio kharma di viverci assieme».
L’avversario uscì in Italia nel 2000 per Einaudi: un libro di culto per alcuni, Oltralpe ottenne successo anche per la cronaca mai dimenticata. Adesso è stato pubblicato di nuovo, Adelphi ha il merito di aver riscoperto un autore da pesi massimi con conseguenze letterarie efferate. Prima fra tutte quella di creare dipendenza, bastano poche righe per innescare l’esplosione. Da noi è accaduto con Limonov. «Il suo successo mi ha sorpreso, e questo vale anche per l’impatto che ha avuto in Francia. Pensavo che le persone avrebbero potuto apprezzarlo, ma non così tanto. Un russo sconosciuto, che può risultare più o meno simpatico... penso che il potere di seduzione sia nel suo essere libro di storia e romanzo d’avventura alla Dumas. In tutto questo sono entusiasta dell’accoglienza italiana».
Che sia menzogna, istinto avventuriero, sfida alla sorte, assalto alle origini, esiste una direzione che affiora sempre nel territorio di Emmanuel Carrère: lo sforzo di capire se stesso attraverso gli uomini. E viceversa. Vale anche per Jean-Claude Romand, signore degli abissi, lasciato tra la condanna finale e una pena sospesa, quasi a un passo dall’assoluzione. Non c’è giudice, o tribunale, solo il lascito del più grande scrittore francese vivente: «Ho pensato che raccontare questa storia non poteva essere altro che un crimine, o una preghiera».
Marco Missiroli