Fabio Chiusi, la Lettura (Corriere della Sera) 01/09/2013, 1 settembre 2013
LA MUSICA SOCIAL E’ UN PO’ STONATA
«La musica è social per natura, e così è Spotify», dice Will Page, responsabile economico del servizio di streaming legale che dal 2008 a oggi ha raccolto 24 milioni di iscritti nel mondo. Apparentemente incontestabile, in un mercato passato in un decennio da una dipendenza pressoché totale dal supporto fisico (nel 2003 le vendite di compact disc rappresentavano il 94,8% del fatturato) a un ruolo sempre maggiore per download e ascolto in Rete. Secondo i dati di marzo 2013 dell’Ifpi (International Federation of the Phonographic Industry), a guidare l’incremento di fatturato complessivo dello 0,3% — il miglior risultato dal 1998 — è proprio il mercato del digitale: più 9% nel 2012, per un valore di 5,6 miliardi di dollari. Inclusi, si legge, i guadagni «generati da servizi come Spotify».
Sviluppato a partire dal 2006 dagli svedesi Daniel Ek e Martin Lorentzon — si legge nel blog dell’azienda — per «sconfiggere la pirateria offrendo ai consumatori un’alternativa migliore e legale», Spotify deve il suo successo non tanto alle funzionalità previste — già disponibili sul rivale Deezer, per esempio — quanto piuttosto proprio alla «viralità», alla diffusione di massa, dei pezzi ascoltati sui social media.
«La musica è social», tuttavia, è un manifesto ideologico insoddisfacente. Perché l’esperienza musicale è anche e soprattutto privata, individuale, indipendente dal condizionamento implicito nell’essere sempre osservati, e nel sempre osservare. Spotify, certo, la abilita. Ma contrasta, come dice lo stesso Page, per «natura». Chi lo usa lo sa: dopo mesi trascorsi a condividere i propri ascolti con gli amici su Facebook o con i follower su Twitter, inserire un cd nel lettore dello stereo assume le fattezze di un’esperienza rivoluzionaria. La solitudine che avevamo associato alla fruizione dell’esperienza musicale diventa l’eccezione. A maggior ragione se la nostra collezione di canzoni ci segue ovunque: dallo smartphone al tablet, dal laptop di casa all’automobile — Ford e Volvo includono Spotify tra i servizi attivabili anche a voce.
Idealmente, secondo Ek, dovrebbe seguirci ovunque, integrandosi con le nostre stesse abitazioni e con strumenti di realtà aumentata come i Google Glass. Social, poi, è sinonimo di personalizzazione. Non a caso è la parola d’ordine anche di tutti i rivali di Spotify, da Last.fm al recente Google Play Music All Access alla radio streaming di Apple, al lancio questo mese. E di nuovo è Page a spiegare più chiaramente cosa significa: «Non abbiamo solamente i dati di ogni singola riproduzione in streaming», ha detto al sito tecnologico Cnet lo scorso aprile. «Sappiamo anche da dove arrivi — se direttamente da Spotify o da Facebook — e inoltre età, sesso e provenienza di chi ascolta, e i tratti comportamentali sulle playlist create o ascoltate». Molto più di quanto si possa sapere tramite un semplice ascolto su YouTube, conclude Page.
Ma siamo sicuri che questa riduzione della musica a insieme di dati giovi davvero allo spirito di scoperta del consumatore? Restando all’interno del solo Spotify, sembra piuttosto che la possibilità di trovarsi ad ascoltare artisti con caratteristiche radicalmente diverse da ciò che il software interpreta come costitutive del nostro gusto estetico siano minime. A maggior ragione se, con un catalogo di oltre venti milioni di brani, l’abbondanza si è sostituita alla scarsità dell’era dei supporti fisici. E se, come sostiene il capo della divisione musicale di Nokia, Michael Bebel, vogliamo sempre più consumare all’istante.
Non a caso, forse, uno studio Deloitte per la Federazione industria musicale italiana mostra che nel primo semestre del 2013 la vendita di vinili è aumentata del 53%. I consumatori, insieme al nuovo, sembrano reclamare il vecchio. «Con il digitale l’ascolto della musica è ubiquo e compulsivamente condiviso», dice a «la Lettura» il direttore del master in Comunicazione musicale dell’Università Cattolica, Gianni Sibilla. «Il vinile invece ti obbliga a un ascolto rituale quasi sacro. Un’intenzionalità che ha un suo fascino, una forma di ribellione all’accesso ipersemplificato con un clic». Naturalmente, poi, ci sono molte altre ragioni, tutte significative per comprendere il mercato musicale del futuro. Il vinile sopravvive perché il suono è migliore, unico. Perché «è un oggetto bello, da collezionare e accudire», dice Sibilla. Per chi ha vissuto l’epoca dei 33 e 45 giri, una riscoperta.
Ma il fascino si esercita anche sui «nativi digitali», che «vogliono recuperare un rapporto fisico con la musica che non hanno mai avuto». Un fenomeno che sembra ripresentarsi per gli stessi compact disc. Come sostiene il presidente della Fimi, Enzo Mazza, se da un lato «i dati dicono che il declino del supporto è inevitabile», dall’altro «resterà come prodotto per edizioni sofisticate. Non è un caso che i boxset molto costosi con cd, dvd, e altri memorabilia in confezioni a tiratura limitata non conoscono crisi e vanno esauriti». Tuttavia, conclude, «per il mainstream sarà la musica digitale, e molto probabilmente lo streaming, a essere il segmento leader nel futuro».
Anche in Italia, del resto, il digitale rappresenta ormai il 38% del mercato. Con effetti positivi, per esempio, sulla pirateria: secondo Spotify, calata del 25% in Svezia dopo il suo lancio. E per l’Italia, dove è disponibile da febbraio, immagina 47 milioni di file scaricati illegalmente in meno. Ciò che non ha potuto un decennio di aspre polemiche per meglio tutelare il diritto d’autore in Rete, attraverso norme più severe, insomma, sembra che stia riuscendo a un’offerta legale migliore.
Ma il mantra di Page ha difetti anche economici. Prima di tutto, nemmeno colossi come Spotify o la radio personalizzata via internet, Pandora, riescono a generare bilanci in attivo. Il primo, nonostante abbia raddoppiato gli abbonati a pagamento da tre a sei milioni in un anno, ha visto nello stesso periodo passare le perdite nette da 45,4 a 58,7 milioni di euro.
Come ricorda il «Guardian», in tutta la sua storia «l’azienda non ha mai generato profitti, e le perdite sono aumentate ogni anno» — nonostante il fatturato del 2012 sia stato superiore a quello dell’anno precedente del 128%. Quanto a Pandora, le analisi su come rendere profittevole il suo modello di business in Rete si sprecano. Alcuni sostengono il suo futuro si giochi sulla capacità di contenere i costi di marketing e vendita; altri che la scommessa sia nel riuscire a ridurre le royalties pagate attraverso un’intensa attività di lobbying al Congresso Usa da qui al 2015. Ma non vi sono certezze. E i dubbi si traducono immediatamente in quelli degli artisti, che di quelle tariffe sono i beneficiari.
L’ultimo a insorgere è stato il leader dei Radiohead, Thom Yorke, insieme al suo storico produttore, Nigel Godrich: troppo basse le quote corrisposte a ogni ascolto per giustificare la presenza del proprio catalogo. Il guru dell’elettronica Four Tet si è detto d’accordo, ma l’esempio più chiaro viene dai Daft Punk e dal loro successo planetario, Get Lucky: 100 milioni di stream su Spotify hanno fruttato 9.700 dollari. Impossibile per artisti indipendenti ricavarne abbastanza per sopravvivere.
C’è chi sostiene che i soldi verranno dalla relazione diretta tra artisti e fan consentita proprio dall’offerta musicale sempre più sociale e mirata. Ma è un’altra scommessa, specie se gli analisti cominciano a chiedersi per quanto ancora download (materiale scaricato dalla Rete) e streaming (materiale trasmesso attraverso la Rete) possano continuare a crescere senza che i secondi limitino il successo ottenuto a fatica dai primi. Finora i lati della medaglia della musica digitale hanno convissuto pacificamente, ma con 20 milioni di abbonati paganti e 60 milioni di ascoltatori per la sola radio online Pandora, la domanda che Russ Crupnick, vicepresidente dell’azienda di ricerche di mercato Npd, affida a «Time» è lecita: «Fino a che punto l’industria può mantenere il fatturato digitale in crescita — il metodo iTunes di comprare una traccia o un album?». La risposta, dice, sarà «molto importante nei prossimi tre-cinque anni».
Fabio Chiusi