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 2013  settembre 01 Domenica calendario

«Scambio fiscale»: le conseguenze La fase di estrema difficoltà in cui versa l’economia italiana giustifica un’attenzione particolare al tema della politica fiscale

«Scambio fiscale»: le conseguenze La fase di estrema difficoltà in cui versa l’economia italiana giustifica un’attenzione particolare al tema della politica fiscale. Fra i diversi aspetti, nel dibattito recente riemerge di tanto in tanto l’ipotesi che per rilanciare la domanda possa essere utile uno scambio fiscale, ovvero una riduzione di alcune imposte, finanziata con l’aumento di altre. Anche nell’ultimo contributo di Innocenzo Cipolletta del 28 agosto sulle pagine del Corriere si avanza questa tesi, nella variante di «più Iva e Imu e meno Irpef». In realtà gli studi sull’utilità di uno scambio fiscale di questa natura danno risultati controversi, e comunque gli eventuali effetti sono piccoli e destinati a materializzarsi nel lungo periodo. Si tratta, peraltro, di studi teorici, che non possono essere calati tout court nella realtà italiana dove di incrementi dell’imposizione indiretta ve ne sono stati, e di entità significativa, nel corso degli ultimi anni, senza che a ciò sia peraltro corrisposta la riduzione di altre imposte. Basti qui rammentare le variazioni delle accise sui carburanti, l’aumento dell’imposta di bollo, le imposte sui giochi, l’accisa sulle sigarette, l’aumento dell’Iva ordinaria dal 20 al 21 per cento a partire da ottobre 2011. A ciò si aggiungerebbe poi un ulteriore aumento di un punto dell’aliquota dell’Iva ordinaria, dal 21 al 22 per cento a partire dal mese di ottobre, e che si auspica possa essere scongiurato dal Governo. È quindi legittimo chiedersi quale possa essere in un contesto di questo genere l’effetto sulla domanda interna di ulteriori inasprimenti dell’imposizione indiretta finalizzati al taglio delle dirette. Certo non quello di spostare i consumi, nella misura in cui i rincari dei prezzi eroderebbero il potere d’acquisto delle famiglie compensandone quasi completamente il beneficio derivante dalla riduzione dell’Irpef. Peraltro l’aumento dell’Iva colpirebbe nello specifico i consumi mentre la riduzione Irpef andrebbe in parte a beneficiare il reddito risparmiato. L’effetto sui consumi complessivi potrebbe quindi anche risultare di segno negativo, con effetti opposti a quelli desiderati. A beneficiarne sarebbero eventualmente solo le imprese esportatrici visto che il rincaro Iva non colpisce i beni esportati, ma a condizione che le imprese riescano ad «appropriarsi» di una frazione della riduzione dell’Irpef, riducendo gli incrementi dei salari. Un po’ poco per sollevare le sorti del Paese, e soprattutto discutibile come impostazione, visto che verrebbe sostenuta l’unica componente della domanda non colpita dalla poderosa stretta fiscale degli ultimi anni. Restano poi da segnalare (come risulta da uno studio realizzato per l’Associazione delle imprese di produzione e distribuzioni di beni di largo consumo, Indicod-Ecr) gli aspetti redistributivi di tali politiche. Difatti, tale proposta tende a rafforzare un’imposta a carattere regressivo come l’Iva, andando ad indebolire imposte a carattere progressivo, come l’Irpef. D’altra parte, si deve ricordare che proprio il carattere regressivo dell’Iva deve essere attenuato in quei Paesi, come l’Italia, in cui la progressività dell’imposta sui redditi è molto smorzata dalla presenza di livelli elevati dell’evasione fiscale. Infine, si deve ricordare che l’Iva è un’imposta evasa in misura maggiore rispetto alle imposte sul reddito e che aumenti di questa imposta accrescono l’incentivo per il consumatore a spostare la domanda sui prodotti sui quali vi è evasione fiscale. Fedele De Novellis Economista di ref.ricerche srl