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 2013  settembre 02 Lunedì calendario

ANTONIA POZZI, PRIGIONIERA DELLA GIOVINEZZA

Tradotta da qualche settimana in Russia; protagonista di un film che si gira in questi giorni a Milano: Antonia Pozzi non smette di essere presente - misteriosa e magnetica - sulla scena culturale. La casa editrice Ivan Limbach di San Pietroburgo ha appena mandato in libreria la raccolta Parole, nella traduzione di Piotr Epifanov. Il regista Ferdinando Cito Filomarino ha dato il via, a inizio agosto, alle riprese del film biografico Antonia , con Linda Caridi nei panni della poetessa. Qualche mese fa l’editore Ananke ha pubblicato, a cura di Matteo M. Vecchio, la tesi di laurea Flaubert negli anni della sua formazione letteraria , che la giovane Antonia discusse nell’anno accademico 1934-35 con relatore il filosofo Antonio Banfi. Appena pubblicati da Ladolfi, gli illuminanti Otto studi di Matteo Vecchio su Antonia Pozzi.

Ma qual è il segreto di questa figura? Apprezzata da Montale, che parlò di presenza «messianica», e da T.S. Eliot, è stata messa a fuoco a fatica dai critici di professione: un po’ per la consueta misoginia; un po’ per la difficoltà nel sondare un’opera poetica protetta e levigata, se non manomessa, dal padre di Antonia, Roberto, dopo la morte di lei. Perché la vita solare e triste di Antonia Pozzi è finita troppo presto: a ventisei anni, il 3 dicembre 1938, con un gesto - il suicidio - che la accomuna a molti suoi compagni di strada e di studio: Gian Antonio Manzi, Miro Martini, Giulio Preti, Guido Morselli, Remo Cantoni, e da ultimo Mario Monicelli, nel 2010.

La prima cosa di Antonia che suo padre Roberto provò a nascondere fu proprio la verità dell’ultimo mattino: Antonia va a scuola – dal ’37 insegna materie letterarie all’Istituto Schiaparelli di Milano –, i ragazzi la vedono piangere, alle undici dice di non sentirsi bene, prende la bicicletta e si allontana verso Chiaravalle. Su un prato accanto all’Abbazia manda giù una dose massiccia di barbiturici: «dove la città / in un volo di ponti e di viali / si getta alla campagna / e chi passa non sa / di te», come scrisse in una poesia di Frontiera Vittorio Sereni, che le fu amico. Muore il giorno dopo, nel tardo pomeriggio.

Ma c’è tanta vita nei pochi anni di Antonia: la scrittura è nelle sue vene, come dice lei stessa, pronipote del romanziere Tommaso Grossi, amico di Manzoni. Le prime poesie le scrive al liceo, innamorata del suo professore di liceo. Il padre di Antonia fa in modo che la relazione abbia subito fine; il professor Cervi si fa trasferire a Roma. All’università di Milano, in quei primi Trenta, può seguire le lezioni di Borgese e di Banfi. Annota furiosamente sui quaderni le lezioni su Nietzsche; chiede a Banfi la tesi su Flaubert giovane e gli fa leggere le sue poesie. L’aneddotica vuole che lui le abbia commentate con un «Si calmi, signorina». Ma sarà sempre lui a ricordarla, due anni dopo la morte, come la ragazza che gli sorrideva con «occhi limpidi, tremanti, chiari, come le sue speranze e i suoi sogni».

Antonia fa volontariato alla Casa degli Sfrattati, scatta fotografie, paesaggi soprattutto montani, e scorci del suo luogo del cuore: Pasturo, in provincia di Lecco, dove è sepolta. Antonia scrive lettere, e sono sempre molto belle, cariche di inquietudine e di tenerezza, degli slanci e delle ansie di chi prova a edificare giorno per giorno il proprio universo artistico e morale, il proprio «dentro». Specchia negli altri un malessere che a volte la lascia senza respiro e prova a dargli sfogo nella poesia: «la poesia - scrive nel ’33 a Tullio Gadenz - ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte». Aspira a essere «placata, serena, forte», ma le sembra un orizzonte arduo e remoto. C’è qualcosa, in lei, che brucia e le impedisce – anche quando, nelle note di diario, se lo impone – di essere «più forte» del dolore. Come si fa a scavalcare la tempesta, a guardarla da lontano?

Legge Tonio Kröger di Mann e vorrebbe essere come lui: «al di là della vita, al di là della tempesta». Ma l’ipersensibile Antonia sembra acquietarsi appena solo quando è immersa nei suoi paesaggi pasturesi: «gioia di cantare come te, torrente»; «boschi miei / che le nuvole del settembre / lente percorrono». E ferma nei versi come nelle fotografie i dettagli che ama: la vista del Cervino, le greggi, le betulle spoglie, le nuvole, la partenza delle rondini. E il silenzio. Si può fotografare il silenzio? All’istantanea su cui fissa un vicolo in salita, deserto, nella sua ultima estate dà questo titolo: «Il silenzio». Ma tutt’altro che muta è questa breve esistenza: è come se nel tumulto del suo fare - versi, lettere, progetti, diari, fotografie - fosse riassunta la sostanza stessa della giovinezza: «Forse la vita è davvero / quale la scopri nei giorni giovani: / un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza».

Antonia Pozzi, della giovinezza, è rimasta prigioniera; e la tensione, l’ombra e il sole, i crolli e i pensieri raggianti, la purezza («Signore, per tutto il mio pianto…») e il desiderio («m’inarco nuda» dice un verso occultato dal padre), la fame d’amore - tutto è nel turbinoso libro della sua vita, nell’involontario romanzo dei suoi vent’anni e dei vent’anni di ognuno. Quello della storia familiare l’aveva progettato, senza riuscire a scriverlo. Ma in una lettera alla nonna c’è già tutto, come in una poesia: «Voglio sapere come erano i mobili della gran fattoria vicino a Cremona, il colore dei cavallini che domavi, l’odore delle camerate in collegio e di che stoffa erano i vostri grembiali. Capisci? Voglio l’aria del tramonto a Motta Visconti, a Treviglio, a Desio: e come erano i primi stabilimenti e le prime biciclette».