Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 29/9/2013, 29 settembre 2013
IL PUDICO MANZELLA PARLA IN GENERALE
Lo dice da anni e ora finalmente ha trovato - ovviamente per puro caso - orecchie attentissime nel più grande quotidiano italiano: “Bisogna ripensare tutto il sistema delle garanzie”. Il ragionamento di Andrea Manzella - raccolto ieri casualmente dal Corriere della Sera pure se il nostro è storico collaboratore di Repubblica - è altissimo, come si conviene a un gran commis del suo livello: storia, sapienza tecnica, cultura del diritto e una sbarazzina polemica contro la stessa Costituzione vi si fondono in un unico flusso di coscienza.
IL MAGGIORITARIO, dice il nostro, senza riforme adeguate ha inquinato il funzionamento delle Camere, finendo ad esempio “per mettere nelle mani della maggioranza di turno la decisione sui parlamentari che dovrebbe essere strettamente giuridica” com’è il caso della incandidabilità. La mia, ci spiega Manzella a mezzo Corriere, mica “è una polemica politica contingente”. Non sia mai: è “una critica istituzionale contro l’articolo 66 della Costituzione”. Che poi sarebbe quello che ostacola la pragmatica e pacifica conclusione che al Quirinale desiderano per questa difficile fase della vita politica. Prescrive infatti che sulle faccende di ineleggibilità e simili decidono gli eletti: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Dunque, visto che la Carta è chiaramente sbagliata, il nostro fa una proposta che forse qualcuno avrà già sentito: in attesa delle “riforme costituzionali”, decida tutto la Consulta, giudice terzo. Ma tutto tutto? Anche sulla vicenda di Silvio Berlusconi? Certo: “Non si può scaricare sul Parlamento una crisi di questo tipo, che è giuridica nei suoi termini più nitidi”, spiega Manzella. In realtà, ed è l’unico motivo per cui il professore ne discute col Corsera, questa è una vicenda politica nei suoi termini più netti: se vogliamo salvare il governo bisogna salvare, per così dire, il più sbarazzino dei suoi azionisti di controllo. Non è che Manzella non lo sappia, sia chiaro, è che ha pudore del potere come tutti quelli che ce l’hanno, anzi che ne sono consustanziali. Il nostro, infatti, è una delle poche persone in Italia poter dire senza timore del ridicolo: “Lei non sa chi sono io!”. D’altronde, è stato tutto.
CLASSE 1933, da Palermo, magistrato, funzionario alla Camera e poi direttore del Servizio studi, consigliere di Stato, capo del legislativo al Tesoro con Beniamino Andreatta, consigliere giuridico alla Difesa con Giovanni Spadolini, è stato pure segretario generale di Palazzo Chigi con ben tre presidenti del Consiglio: Spadolini, Ciriaco De Mita e Carlo Azeglio Ciampi, il suo vero mentore.
Finita? Macché: eurodeputato del Pds tra il 1994 e il 1999, poi senatore del centrosinistra fino al 2008, professore di Diritto costituzionale (oggi alla Luiss), è stato pure commissario della Figc e lasciamo stare gli incarichi sfusi. Con l’editoria, va detto, non è stato fortunato: Berlusconi lo cacciò da presidente del patto di sindacato Mondadori durante la guerra di Segrate con Carlo De Benedetti; da presidente del cda dell’Unità, invece, si dimise lui nel 2001 quando Antonio Tabucchi osò criticare il Quirinale in un pezzo. Scherza coi fanti, ma lascia stare Ciampi. Questione di stile. D’altronde quando era a Palazzo Chigi col futuro capo dello Stato, una delle innovazioni più rilevanti introdotte da Manzella fu l’obbligo del frac per gli uscieri: “Dal bon ton dell’anticamera si giudica l’uomo”, scolpì alla bisogna.
È la Roma del potere dei tecnici che emerse - sobriamente ma con determinazione non priva di violenza - issandosi sui guai degli impresentabili della Prima Repubblica e trovando pure per strada la benedizione dei circoli “de sinistra” attraverso la comune antipatia per il puzzone di Arcore. Per questo è così rilevante che Manzella dica ora quel che dice: non è il fu Cavaliere a gestire “l’operazione pateracchio” per salvare il governo rinviando il giudizio della Giunta, ma quell’eterno potere romano che perpetua se stesso riparato all’ombra del Colle più alto. L’inquilino conta, ma fino a un certo punto: lui è a termine.