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 2013  agosto 30 Venerdì calendario

C’E’ IL RISCHIO DI UN NUOVO IRAQ?

PERCHE’ NO: «QUESTA VOLTA L’OBIETTIVO NON E’ ABBATTERE IL REGIME MA DARGLI UNA LEZIONE» - Alla vigilia del probabile attacco americano in Siria, il fantasma dell’Iraq si affaccia nei commenti della stampa anglosassone (dal New York Times alla Cnn, alla britannica Bbc) e al Congresso, dove alcuni parlamentari democratici invitano a non lanciare «raid» affrettati, a cercare il più ampio consenso internazionale possibile e, soprattutto, a esibire prove «blindate» dell’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, per evitare una nuova perdita di credibilità e autorità degli Usa come quella di dieci anni fa, quando George Bush ordinò l’invasione dell’Iraq alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa.
Lo stesso Barack Obama, che ha sempre considerata quella dell’Iraq una guerra sbagliata, sente l’imperativo di agire ma è anche preoccupato dagli aspetti di legittimità dell’attacco Usa sul piano del diritto internazionale. E ora pare disposto ad attendere la conclusione del lavoro degli ispettori Onu.
Ma per esperti come Michael Rubin, un ex stratega del Pentagono ora analista dell’American Enterprise Institute, grande think tank conservatore e fucina del pensiero «neocon» negli anni della presidenza Bush, farsi condizionare dal caso Iraq è sbagliato e molto pericoloso.
Eppure quella guerra alla ricerca di armi che non c’erano è costata moltissimo agli Usa in vite umane, miliardi di dollari e avversione del popolo americano a impegnarsi in nuovi conflitti.
«Quello che si sta studiando ora per la Siria è un intervento molto diverso. A differenza dell’Iraq, stavolta nessuno pensa di portare truppe americane in territorio siriano. Nessuna occupazione, né ci sono obiettivi di “nation building” (costruzione nazionale, ndr ). Quanto alla giustificazione dell’attacco in Iraq, dissento da lei: l’emorragia di credibilità non ha riguardato gli Stati Uniti ma l’Europa per il suo cinismo sull’Iraq, i suoi antichi traffici con Saddam Hussein e altri regimi-canaglia e la sua incapacità di agire efficacemente sul piano militare».
Ma oggi il monito a non ripetere gli errori di dieci anni fa non viene certo solo dall’Europa.
«È vero e abbiamo sbagliato anche noi: dopo la guerra in Iraq, le espressioni “intervento unilaterale” e “azione preventiva” sono diventate in molti ambienti di Washington parole sporche, da non usare. Così anche davanti all’accumularsi di notizie circa il dispiegamento e poi l’uso di armi chimiche, per molto tempo l’amministrazione Obama ha dato la sensazione di essere esitante, nonostante i moniti che lo stesso presidente aveva solennemente formulato un anno fa: aveva promesso punizioni severe se quella “linea rossa” fosse stata superata. Ma per un regime-canaglia una linea rossa superata senza sanzioni immediate equivale a un semaforo verde. È, di fatto, il segnale che abbiamo dato a dicembre quando arrivarono i primi rapporti sui preparativi negli arsenali chimici e poi ancora a marzo quando Assad e i gruppi di opposizione si accusarono reciprocamente di aver usato i gas letali. Senza alcuna reazione significativa da parte americana».
Dunque secondo lei Assad adesso è da eliminare, bisogna dimostrare al mondo che chi usa armi chimiche non se la cava.
«Non ho detto questo. Certamente bisogna agire e punire il dittatore siriano perché se Assad si convince che il peggio che gli può capitare lanciando bombe al sarin è un tweet sprezzante dell’ambasciatrice Usa all’Onu Samantha Power, gli attacchi col gas diventeranno la norma, anziché l’eccezione. Con ripercussioni che potrebbero arrivare fino in Nord Corea e perfino nella Turchia di Erdogan se i colloqui di pace coi curdi che vivono nel Paese dovessero fallire. Assad deve avere una punizione dura, deve essere indotto a non usare mai più il suo arsenale chimico, magari anche bombardando i palazzi presidenziali. Ma ucciderlo, decapitare il regime non è più un’opzione perché significherebbe aprire le porte della Siria ad Al Qaeda».
Massimo Gaggi