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 2013  agosto 30 Venerdì calendario

L’USO CORRETTO DELLE «HASHI» NON È COSA PER STRANIERI


TOKYO. Un quarto dell’umanità mangia con le bacchette, un altro quarto con le posate, un altro quarto con le mani («le posate del re», per gli spagnoli d’un tempo). L’ultimo quarto, tragicamente, non ha niente da mangiare.
Le prime tracce dell’uso di bacchette per portare il cibo alla bocca risalgono a oltre tremila anni fa. Un paio di bronzo del 1200 a.C. furono dissotterrate tra le rovine di Yin, in Cina. I primi ad averne abbastanza di mani unte di sugo, dita scottate e sgocciolanti salsa nelle profondità dei maniconi di seta dei loro serici vestiti, furono infatti i cinesi, seguiti dai coreani e dai giapponesi e poi da quasi tutti i Paesi dell’Asia orientale.
I cinesi avevano capito che tagliando carne e verdure in piccoli pezzi, il cibo cuoceva più velocemente, con grande risparmio di legna e di tempo. Il passo successivo fu trovare il modo più comodo e razionale per portare alla bocca quei piccoli pezzi. Nacquero a questo scopo le bacchette. In cinese si chiamano kuaizi, in coreano jeotgarack, in giapponese hashi.
A Shanghai c’è il Kuaizi Museum, dove si possono ammirare circa mille coppie di bacchette antiche e moderne. Poca cosa in confronto ai 2.600 esemplari di ogni misura, colore, materiale ed epoca esposti nel negozio di Toshiki Sato a Ginza, il quartiere di Tokyo, cuore sempre pulsante dello shopping nel più grande agglomerato urbano del mondo. Quando non è in viaggio da una parte all’altra dell’arcipelago giapponese per visitare le maggiori fabbriche e i più raffinati artigiani produttori di bacchette, si può vedere Sato-san nel suo lussuoso negozio intento a «temperare» con veloci ed esperti colpetti di lama le estremità arrotondate dall’uso di bacchette troppo preziose per non avere più diritto al loro posto su una tavola bene apparecchiata.
Quali sono i criteri per scegliere un buon paio di bacchette? Sato-san non ha dubbi: «La prima regola è la lunghezza. Le bacchette devono stare bene nella mano e dare il giusto risalto ai tuoi piatti. La lunghezza da me raccomandata è pari a una volta e mezza la lunghezza della linea che corre dalla punta del pollice a quella dell’indice quando sono aperti ad angolo rotto: le misure più comuni sono tra i 18 e i 23 centimetri. Ce ne sono anche di 30 o 40 da usare come utensili di cucina».
A proposito della lunghezza delle bacchette, in un antico codice giapponese si narra di un potente e valoroso samurai accolto dagli dei in paradiso, al termine della sua eroica vita. Prima di varcare la soglia del paradiso, il samurai chiede e ottiene di poter gettare uno sguardo all’inferno. Vede un brulichio di anime in pena fornite di bacchette lunghe oltre un metro, da tenere rigorosamente alla base, con le quali invano tentano tra mille contorcimenti e urla di rabbia di portare alla bocca qualche morso dei succulenti piatti continuamente scodellati davanti a loro con diabolico sadismo. Rabbrividendo al pensiero di esser scampato a quel supplizio, il samurai si dice pronto a entrare in paradiso. E grande è il suo stupore quando vi trova l’identico scenario appena visto all’inferno: tavole imbandite con ogni ben di dio e commensali forniti di bacchette lunghe oltre un metro. Un’unica, sostanziale differenza; in paradiso i commensali dopo aver afferrato il cibo con le bacchette extra-large, invece di cercare vanamente di nutrire se stessi, introducevano amorevolmente il cibo nelle bocche dei vicini e questi ultimi erano lieti di contraccambiare porgendo a loro volta gustosi bocconi a sazietà, nella gioia più totale.
Ma non conta soltanto la lunghezza nella scelta delle bacchette ideali. C’è anche da considerarne lo spessore. L’unico criterio è la sua aderenza alla mano. Deve essere una sorta di suo prolungamento naturale. «In genere alle donne consiglio bacchette sottili perché affusolano le dita» afferma serafico Sato-san. In ogni caso, bisogna provarne almeno dieci tipi diversi per essere sicuri di «sentire» quale è quello che meglio aderisce alla tua mano. «Le bacchette possono essere di legno, di lacca, di ceramica, di avorio, di giada, d’argento e d’oro. E, manco a dirlo, di plastica («Ci faranno anche l’anima con la plastica»). Sato-san è un paladino di quelle di legno, tra cui predilige quelle di essenze dure come il palissandro e l’ebano. Il corpo della bacchetta può essere tondo o avere da tre a dieci sfaccettature. È la mano del cliente che deve stabilire quella che più gli si adatta. Un cliente esigente può impiegare oltre un’ora prima di puntare il dito sulla coppia prescelta. «E non sarò certo io, né alcuno del mio staff, a mettergli fretta», commenta Sato-san.
Un giusto rapporto qualità-prezzo lo si ha con le bacchette di bambù, leggere e flessibili, perfette per piatti (come i noodels o spaghetti in brodo) che non prevedono la divisione del cibo in bocconi più piccoli. Spesso le bacchette di legno sono colorate o ricoperte di lacca per mantenerle a lungo senza macchie di cibo.
Sato-san fa il Cicero pro domo sua e suggerisce il cambio di bacchette nel corso dello stesso pasto per usare sempre quelle più adatte a ogni portata. Ci sono quelle con le punte arrotondate, quelle con punte piatte, quelle con uno speciale noodle stopper ideato da lui stesso, per afferrare più facilmente gli sfuggenti spaghettoni che fluttuano nel grasso brodo di maiale del ramen, popolare in Giappone come gli spaghetti in Italia.
Ci sono regole precise per l’uso corretto delle bacchette: gli errori più comuni da parte di stranieri, ma spesso anche di giovani giapponesi, sono infilzare il cibo con una o due bacchette invece di stringerlo tra le punte, oppure tenerle sollevate sul piatto di portata mentre meditano su quale boccone cadrà la loro scelta, o anche usarle per avvicinare a sé un piatto o una ciotola e servirsi più facilmente. La manovra più complessa è quella di spezzare un boccone in due: tenendo sempre le bacchette in una sola mano, una ferma il cibo, l’altra fa un movimento di stiramento sino a dividerlo con la dovuta delicatezza.
Tra un morso e l’altro, il tempo per bere un sorso di vellutato e tiepido sakè, le bacchette vanno poggiate orizzontalmente tra il commensale e il piatto, o verticalmente alla destra di chi mangia su un apposito piccolo oggetto chiamato hashioki (riposo delle bacchette). Questi possono essere di vetro, metallo e madreperla e si suggerisce che siano di materiale, forma e colori che ricordino la stagione corrente, un fungo se si è in autunno, un asparago in primavera e così via.
Le bacchette più comuni sono quelle in legno usa-e-getta: in Giappone se ne consumano 24 miliardi di paia all’anno, ossia circa 200 paia a persona. Il 90 per cento viene dalla Cina, che ha una produzione annua di 45 miliardi di paia ricavati da 25 milioni di alberi adulti abbattuti ogni anno. Per compensare il danno ecologico causato dalla superproduzione, nel 2006 il governo cinese impose una tassa del 5 per cento sulle bacchette di legno (che fu in sostanza interamente pagata dal Giappone).
Una piccola ossessione per gli stranieri occidentali è ricevere, ogni singola volta che mangiano con i giapponesi, il loro obbligatorio complimento sul corretto uso delle hashi: non importa quanto siano goffi e maldestri i movimenti dello straniero, il giapponese che gli siede vicino sente l’ineludibile dovere di esternare la propria ammirazione e, con espressione di grande meraviglia, esclama: «Ooooh, lei usa benissimo le bacchette. Dove ha imparato?».
L’unica adeguata (ma costosa) vendetta è invitare l’ospite giapponese a mangiare in un ristorante italiano e, osservandolo fare inenarrabili pasticci con la forchetta davanti a un piatto di perfidi e fischianti bucatini all’amatriciana, ricambiare maliziosamente con un: «Ooooooh, ma lei usa benissimo la forchetta. Dove ha imparato?».