Irene Bignardi, il Venerdì 30/8/2013, 30 agosto 2013
AL GRANDE GIOCO NON GIOCO PIÙ
LONDRA. È il 1986. Esce La spia perfetta di John le Carré. E il 17 novembre, David Cornwell, lo scrittore che si nasconde dietro la maschera letteraria di John le Carré, l’autore di La spia che venne dal freddo, La talpa, La tamburina, entra al Quirinale assieme a George Smiley e a Bill Haydon, a Karla e a Alec Leamas, a cugini e calzolai, a talpe e lampionai, insomma a tutto il mondo fittizio, ma non tanto, dello spionaggio britannico così come l’ha raccontato lui, il re della spy story, invitato a pranzo con gesto eccentrico dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
È, La spia perfetta, undicesimo romanzo di le Carré, il suo più personale. Si sente, dietro la finzione, l’autobiografia. Si avverte, dietro la figura del padre indegno di Magnus Pym, la figura di Ronnie, il vero padre di David Cornwell, fascinoso imbroglione e truffatore, sempre dentro e fuori dalle imperiali galere, sempre pronto a ricominciare, abbandonando qua e là, in eleganti scuole di cui non paga la retta, la sua prole. Si sente la stanchezza di chi ha lavorato tutta la vita sulla complessità morale del mondo ambiguo dei servizi segreti. E, intervistato all’epoca, John le Carré (ma è David Cornwell, fascinoso, pacato, articolato, a parlare), che ha per il momento abbandonato il suo personaggio centrale, il grigio e ligio George Smiley, grand commis dei servizi segreti britannici, annuncia: sta diventando «più radicale», «più libero spiritualmente»; ha «cominciato a nutrire un certo disprezzo per Smiley e la sua capacità di abbandonare molto spesso la propria coscienza per fare le cose sporche che è necessario fare». Smiley che diceva «facciamo cose spiacevoli, ma per difenderci e le facciamo perché la gente qui e altrove possa dormire tranquilla nel suo letto». Smiley che sosteneva: «Ognuno di noi ha solo una certa quantità di compassione. Se la sprechiamo su ogni gatto randagio non arriveremo mai al centro delle cose».
Allora Cornwell / Le Carré aveva iniziato a chiedersi: «Che differenza c’è tra abbandonare di quando in quando la morale e non averne affatto? E dove corre la linea sottile che separa lealtà e tradimento? E quanto lontano possiamo andare nella giusta difesa dei nostri valori occidentali senza perderli lungo la strada? E così io o Smiley abbiamo cominciato a litigare».
Quasi trent’anni e dodici libri dopo, questo della morale abbandonata, della contrapposizione tra un’etica pubblica adattabile e un’etica personale da rispettare, del dramma che esplode quando gli uomini d’onore capiscono che il patriottismo o la lealtà al proprio Paese sta prendendo una forma diversa da quella insegnata loro dallo Stato, che stanno diventando i servi sciocchi degli interessi della potentissime multinazionali è il tema centrale di A Delicate Truth, Una verità delicata, il nuovo romanzo di John le Carré che ora arriva in Italia (Mondadori, pp. 350, euro 20, traduzione di Mariagiulia Castagnone). E che appunto, sotto la cornice romanzesca e la suspense del thriller politico, sotto la cronaca di un blitz segreto condotto a Gibilterra da agenti e mercenari britannici e americani per catturare un pericoloso terrorista, ma a prezzo della morte di due innocenti, sotto la storia, dice Le Carré, «di due persone per bene che scoprono come la loro personale moralità sia in opposizione alla supposta etica dello Stato, e si ribellano alle regole/non regole del segreto di Stato a rischio della loro vita», ripropone l’interrogativo che ha tormentato lo scrittore per tutti questi anni. Anni nei quali ha visto dissolversi sotto l’urto della storia le certezze del confronto Est/Ovest, degli schieramenti della guerra fredda, del mondo ben delimitato di un Occidente democratico contrapposto a un mondo «altro» senza regole, del right or wrong my country.
Dove sta il confine tra patriottismo e tradimento? È giusto che esista una sorta di morale parallela valida solo per chi ci governa? Che chi ci governa possa esercitare una giustizia fuori dalle regole e dai controlli, in una guerra non dichiarata, ma combattuta a colpi di legale illegalità? E, per dirla con le parole di Le Carré, che ha visto uscire il suo libro con tempistica casuale, ma perfetta, proprio nei giorni del caso Snowden, non è forse giusto «decidere che i whistleblower, gli informatori che denunciano le verità segrete, sono una voce essenziale in ogni democrazia? Nel mio libro due funzionari leali e patriottici, uno più vecchio, ormai in pensione, promosso a baronetto per cementare la sua lealtà allo status quo, l’altro giovane, promettente uomo politico, decidono, autonomamente, che il loro Paese è servito meglio se dicono la verità su ciò che di sbagliato è stato fatto. È la stessa cosa che ha deciso di fare Snowden. E sì, penso che in questa stagione di manipolazione delle notizie, di bugie ben organizzate, di verità artefatte, i whistleblower sono un voce essenziale in ogni democrazia. Anche se ovviamente non c’è un governo che possa permettersi il lusso di dare loro libertà d’azione, tanto meno quando escono dai ranghi della comunità della corporate intelligence, i servizi segreti delle grandi società, dotate di un potere che sta diventando eccessivo».
Ma, aggiunge Le Carré, Una verità delicata denuncia anche «lo spettro dei tribunali segreti che in Gran Bretagna, nonostante le proteste degli avvocati e del pubblico, stanno prendendo sempre più spazio, e che negli Stati Uniti sono pratica comune». Quanto a Snowden, «gli Stati Uniti lo perseguiteranno fino alla fine dei suoi giorni. E quando lo avranno raggiunto, lo trascineranno a Washington, lo marchieranno come una spia, un traditore, discuteranno se impiccarlo, fucilarlo, mandarlo sulle sedia elettrica, avvelenarlo o semplicemente tenerlo in isolamento finché muore. Lo hanno fatto con Bradley Manning (l’informatico che ha denunciato l’assassinio di molti civili disarmati in Iraq, e che per questo è stato arrestato e condannato a 35 anni). E, se ci riescono, faranno lo stesso con Assange. E ora passiamo a Prism, il programma di sorveglianza elettronica di Internet, e alle organizzazioni similari: anche se i governi europei simulano sdegno e riprovazione, ci sono tutti dentro, come protagonisti o come clienti. Qualsiasi cosa va bene in nome dell’antiterrorismo. Peccato che le agenzie Usa manovrino l’antiterrorismo come un circolo di amici».
Le Carré ricorda che quando il Regno Unito stava prendendo in considerazione l’ipotesi di attaccare l’Iraq e al Parlamento si annunciava il dibattito, nei corridoi succedeva qualcosa di molto familiare: «I politici e i lobbysti del mondo dell’intelligence prendevano da parte i parlamentari e dicevano: “Se sapeste quello che abbiamo visto noi...”. Bene, quello che avevano visto, nel caso dell’Iraq, era una montagna di bugie. Erano montature provenienti da due fonti, una francese e una tedesca. Falsi. Ma è difficile per il cittadino comune, per un qualsiasi parlamentare, dire a quelli dei servizi segreti: “Non ce la raccontate giusta, non vi credo”. Perché ogni tanto hanno ragione».
Ma sarà pure necessario proteggere qualche segreto di Stato. O No? «Forse è un bene che non ci siano segreti da proteggere. Anche se è ovvio che un buon sistema di intelligence, che dia forma alla politica estera e interna, sarebbe molto utile. Ma come si fa a delegare le nostre scelte e le nostre decisioni a questa gente, che per di più non abbiamo scelto noi?»
Le Carré si rende conto che buona parte di quello che scrive sotto la forma del thriller politico «consiste in domande che non hanno risposta». Ma dice anche: «Se conoscessi tutte le risposte alle mie stesse domande smetterei di scrivere».
E ora, dopo il tempo di un mondo in bianco e nero, dopo la stagione del grigio seguita alla caduta del muro, ha affrontato negli ultimi suoi libri, da Il giardiniere tenace a Yssa il buono fino a Una verità delicata, un nuovo bianco e nero, in cui i cattivi sono Big Pharma, le banche, le multinazionali, l’islamofobia, i politici disonesti o ambiziosi, le disinvolte scorciatoie in tema di legalità pubblica del suo Paese e degli Stati Uniti. Ragion per cui è stato accusato da una parte della stampa Usa di essere antiamericano. «Ma figurarsi. Penso però che, in un regime presidenziale come quello degli Stati Uniti, l’intreccio di potere delle corporation e della destra, crei seri problemi alla governabilità. Da cittadino britannico, credo che la loro influenza sul Regno Unito andrebbe limitata. E mi vergogno per la facilità con cui partecipiamo alle guerre americane senza buone motivazioni. Questo mi rende antiamericano? Forse in realtà sono antibritish...».
Ma Una verità delicata racconta anche in trasparenza come è cambiato David Cornwell nei cinquant’anni trascorsi da quando, giovane diplomatico, ha lasciato il Foreign Office e l’MI6, ha pubblicato La spia che venne dal freddo per essere rapidamente proiettato nei ranghi degli scrittori di successo.
«Sono nato nel 1931. E quando ho cominciato a capire qualcosa stavamo combattendo la Germania. Alla fine della guerra il patriottismo che mi è stato inoculato mi ha spinto a cogliere l’occasione di arruolarmi come diplomatico, ma in realtà nell’intelligence, e a combattere almeno nella Guerra fredda contro il comunismo degli anni stalinisti. Ma con La spia che venne dal freddo ho abbandonato anche quella posizione, quella causa. E, se guardo all’arco della mia vita, vedo che è stata una continua serie di impegni e di fughe. Che io stessi insegnando o che stessi lavorando per il mondo dello spionaggio, tutto mi è stato offerto in modo che potessi prima abbracciare e poi fuggire le situazioni che avevo scelto. Finché non ho scoperto la scrittura: e la scrittura è un luogo da cui non posso più fuggire».
E in cui si è rifugiato di nuovo, a scrivere il ventiquattresimo episodio prossimo venturo della sua tragicommedia umana.
Irene Bignardi