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 2013  agosto 30 Venerdì calendario

L’AMERICA DA SOLA NON FERMERÀ ASSAD


IL RIPUGNANTE crimine morale perpetrato contro altri siriani, con tutta probabilità dalle forze di Bashar al-Assad, offre al presidente Barack Obama un’opportunità irripetibile: primo, mobilitare l’opinione pubblica mondiale contro la guerra settaria in corso in Siria, sempre più distruttiva; secondo, cercare una più larga partecipazione internazionale a un impegno più generale per impedire una deflagrazione che coinvolgerebbe l’intera regione. Le guerre civili sono sempre brutali. Quella siriana è allo stesso tempo un fanatico conflitto religioso e un violento scontro etnico interno.

ISTIGATO dall’esterno da rivali regionali, che a loro volta beneficiano del sostegno di grandi potenze in competizione fra loro. Tutto questo conferisce alla dinamica del conflitto il potenziale di una rapida espansione, sia in termini di estensione territoriale che di intensità della violenza.
Ne consegue che una risposta punitiva all’incredibile atrocità dell’attacco chimico contro civili siriani dovrebbe essere inserita in una strategia più generale mirata a coinvolgere l’opinione pubblica mondiale in una condanna della guerra in sé, e anche a favorire l’emergere di una coalizione di Stati più ampia, accomunata dall’interesse — ognuno per propri motivi — di evitare una deflagrazione che coinvolgerebbe l’intera regione.
Qualcuno sostiene che sollevando la questione nel quadro delle Nazioni Unite si corre il rischio d’incappare nel veto di alcuni Stati, e forse anche in un sostegno limitato nell’Assemblea generale. La valutazione è corretta, ma la conclusione è sbagliata. Quello che bisognerebbe fare in questa fase è piuttosto semplice: chiedere all’Assemblea generale di approvare una risoluzione che condanni in modo inequivoco l’attacco chimico contro i civili dichiarando che è un atto inconcepibile per un’umanità civilizzata, senza però indicare, per il momento, chi ne sono i responsabili. Come potrebbe uno Stato, di qualsiasi orientamento geopolitico o religioso, rifiutare di associarsi alla condanna collettiva di un disumano omicidio di massa di civili mediante agenti chimici lanciati con armamenti moderni?
Un voto di questo tipo darebbe chiarezza ed enfasi alla dimensione morale di questo tragico conflitto. Come sia nato il conflitto, chi l’abbia sponsorizzato e come sia stato combattuto con brutalità sempre maggiore sono questioni che si possono affrontare a tempo debito. Ma è imperativo che l’umanità, attraverso l’Onu, condanni senza equivoci il male morale implicito in questo atto orrendo. Oltre a un’azione militare punitiva, e a bollare come assolutamente vile il crimine commesso, gli Stati Uniti dovrebbero prendere l’iniziativa per coinvolgere uno schieramento internazionale più ampio nell’urgente e indispensabile sforzo di prevenire l’esplosione di un conflitto regionale dalle conseguenze geopolitiche ed economiche potenzialmente gravi. Diversi osservatori hanno già fatto notare che la guerra settaria in Siria rischia di trasformarsi in uno sconvolgimento regionale che può travolgere la Giordania, il Libano, l’Iraq, la Palestina e Israele, la Turchia e il Kurdistan, e risucchiare, alla fine, anche l’Iran e gli Stati Uniti.
In qualche modo anche la Russia potrebbe essere trascinata nell’escalation regionale di violenza, specialmente se Iran e Stati Uniti entrassero in collisione. In più, la violenza potrebbe espandersi alla regione caucasica della Russia. (Inevitabilmente anche le olimpiadi invernali di Putin in programma a Soci fra qualche mese finirebbero vittima dell’escalation.)
Molto più gravi sarebbero le potenziali conseguenze economiche per quegli Stati asiatici, di fondamentale importanza, che dipendono in larghissima misura dalla stabilità delle forniture di petrolio dal Medio Oriente. Qualsiasi interruzione dei rifornimenti di greggio produrrebbe un impatto sull’economia globale. Nello scenario peggiore, la crisi siriana potrebbe rispecchiare le violenze, un secolo fa, nei Balcani, e che all’inizio vennero trascurate.
Ne consegue che un aggravamento della crisi siriana esige una risposta più ampia, che affronti, implicitamente se non esplicitamente, il legame tra le violenze fra sunniti e sciiti, i rischi crescenti legati alla repressione israeliana dell’insofferenza palestinese, le ambiguità interne ed esterne della contorta politica iraniana e il caso turco, dove l’identificazione, che finora appariva salda, con una democrazia di tipo occidentale è sempre più a rischio.
L’iniziativa di tutto questo deve essere presa dagli Stati Uniti, perché nessun altro può farlo. Ma Washington ha bisogno di qualcosa di più del sostegno di Gran Bretagna e Francia, le vecchie potenze coloniali della regione: l’Unione Europea deve avere più visibilità.
Inoltre, i tempi sono maturi per coinvolgere nell’impegno anche le potenze asiatiche che potrebbero essere colpite direttamente, in particolare la Cina, l’India e il Giappone. Coinvolgere questi Paesi in uno sforzo diplomatico più intenso potrebbe incoraggiare Mosca ad abbandonare l’idea che una crisi in Medio Oriente danneggi soprattutto gli interessi americani, e unirsi invece a una coalizione di Stati interessata soprattutto a sostenere accordi graduali e interconnessi. Fra questi, un cessate il fuoco con supervisione internazionale in Siria, negoziati seri tra israeliani e palestinesi al momento incoraggiati soprattutto dagli Stati Uniti, e la ricerca di una possibile normalizzazione delle relazioni con il nuovo governo iraniano democraticamente eletto, in cui la demonizzazione reciproca diventi una reliquia del passato.
Nulla di tutto questo può essere fatto in tempi rapidi. Ma l’alternativa è indiscutibilmente funesta.
(Traduzione di Fabio Galimberti)