Gianluca Baldini, il Venerdì 30/8/2013, 30 agosto 2013
PERCHÉ LA SVEZIA PAGA PIÙ TASSE E NESSUNO SE NE LAMENTA
Tasse, tasse, tasse. Fede calcistica a parte, sembra che la vita dell’italiano medio non venga toccata altro che dal personale e duraturo rapporto che ha con il fisco. Relazione che ogni cittadino dello Stivale tenta di rendere meno dolorosa. A volte anche con modi non sempre leciti.
Purtroppo però, dietro a ogni «tormentone» c’è sempre un fondo di verità. E la pressione fiscale che gli italiani devono subire ogni anno non fa eccezione. Come spiega Alessandro Santoro, professore associato di Scienza delle Finanze dell’Università di Milano Bicocca ed esperto Ipsoa in materia fiscale, «secondo i dati della Commissione Europea, dal 1995 al 2011 (ultimo dato disponibile) la pressione fiscale in Italia – calcolata come rapporto tra le imposte, i contributi e il Pil, cioè quanto produce l’Italia – sarebbe aumentata dal 39,8 al 42,5 per cento, quindi poco meno di tre punti percentuali».
Non troppo, dunque, in sedici anni di onorata carriera. Nell’ultimo biennio (2012-2013) però il carico è cresciuto più della media e, secondo i dati del governo, si è attestato intorno al 44 per cento. Il problema però è che il 44 per cento di pressione fiscale è calcolato soltanto sul Pil emerso, cioè il Prodotto interno lordo «registrato» attraverso la dichiarazione dei redditi. Se invece, il calcolo si facesse prendendo in considerazione anche il Pil non emerso, tutto quello cioè che viene evaso ogni anno, allora in Italia la pressione fiscale salirebbe al 51 per cento. Facendo un parallelo meteorologico, si potrebbe dire che l’evasione fiscale italiana è come la temperatura: ce n’è una teorica, 44 per cento circa, piuttosto alta – ma non la più elevata in Europa – , e una percepita (51 circa), che fa sudare ogni anno il popolo italiano. Il vero problema, però, non è la pressione fiscale in quanto tale. In altri Paesi, come la Danimarca e la Svezia, ad esempio, il peso dell’erario è persino più alto che da noi. Il problema è che i danesi e gli svedesi non si sentono così schiacciati come gli italiani. Perché? «La pressione è notevole da noi ma questo non è il male peggiore», sottolinea Michele Busetto, partner di Kpmg, network di servizi professionali alle imprese, specializzato nella revisione e organizzazione contabile e nei servizi fiscali, legali e amministrativi. «Se la pressione fiscale fosse tanto alta quanto i servizi che si ricevono, allora forse in pochi avrebbero da ridire. Il problema è che non c’è certezza del diritto. In Italia c’è la più totale incertezza sulle operazioni che un’azienda può svolgere per pagare meno tasse. E soprattutto l’interpretazione delle norme che regolano la materia fiscale in Italia ha un potere tanto discrezionale da far stare alla larga nuovi investitori. E questo è un problema che non si potrebbe risolvere nemmeno con una classe dirigente un po’ più preparata, come ad esempio quella inglese, in cui, per far fronte alla crisi, si è lavorato per abbassare le tasse».
Insomma, il problema non è solo che si pagano troppe tasse ma è anche che non ci sono servizi e l’applicazione delle norme tributarie appare a dir poco confusa e questo fa scappare a gambe levate chi vuole portare capitali in Italia. Del resto, nella classifica dei Paesi dell’Unione Europea in cui si pagano più tasse, l’Italia è «solo» settima (senza considerare i redditi non dichiarati), surclassata da Danimarca, Francia, Belgio, Svezia, Austria e Finlandia. Nel 2000 l’Italia, secondo i dati della Commissione europea, era persino leggermente al di sotto della media europea con una pressione del 39,8 per cento rispetto a una media del 39,9. «La sostanziale differenza con l’Italia», sottolinea Massimo Dalla Vedova Director Financial Institutions di Alliance-Bernstein, società americana che opera nel settore della finanza, «è che, in quei Paesi, le entrate fiscali sono tradotte in offerta di servizi pubblici efficienti che, di fatto, accrescono il reddito delle famiglie o almeno lo ridistribuiscono più efficacemente. Ad esempio, se una famiglia paga un alto livello di tasse ma in cambio ha un buon asilo gratuito per i figli, trasporti pubblici efficienti per andare al lavoro e un basso livello di burocrazia per intraprendere una nuova attività, il bilancio complessivo può risultare addirittura positivo».
Le differenze tra l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione Europea diventano ancora più evidenti se si separa la pressione fiscale sulle persone fisiche, i singoli cittadini per intenderci, da quella sulle persone giuridiche, cioè le aziende. «Con riferimento all’aliquota dell’imposta applicabile sul reddito delle persone fisiche, l’Italia si assesta al 47,3 per cento, contro una media europea del 38,9 (con un minimo in Bulgaria del 10 e un massimo del 56,6 in Svezia)», spiega Piermauro Carabellese, commercialista e partner di Nctm Studio legale associato. «Con riferimento invece all’imposta applicabile sui redditi societari, invece, vale la pena osservare che a fronte di una media europea del 23,5 per cento (con minimo in Bulgaria e Cipro del 10 e un massimo del 36 per cento in Francia), l’Italia si assesta al 31,4». Insomma, se i servizi sono sempre stati pochi, almeno un tempo si pagavano un po’ meno tasse. Ora, nemmeno quello.